sabato 20 marzo 2010

Insegnare all’Università.

Intervista a Maria Lucia Giovannini

Rivolgiamo a Maria Lucia Giovannini, ordinario di Pedagogia Sperimentale all’Università di Bologna, una serie di domande sull’ultimo libro da lei curato dal titolo: "Insegnare all’Università. Modelli di formazione in Europa. Learning to teach in Higher Education. Approaches and Case Studies in Europe" (CLUEB, Bologna, 2010).

Quali i motivi che l’hanno indotta a prendere in considerazione la tematica della formazione professionale all’insegnamento dei docenti universitari?

Non si può fare a meno di considerare il processo trasformativo che a partire dagli anni Sessanta ha coinvolto l’università non solo in Italia ma in tutti i Paesi e che a livello europeo ha portato un decennio fa alla costruzione di uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. Da allora il ruolo dell’istruzione superiore e i suoi rapporti con la società sono profondamente cambiati. È aumentato il numero degli studenti universitari, ma è via via sempre più mutata la loro composizione. Questo anche grazie alla crescente domanda di istruzione da parte di giovani di strati sociali precedentemente esclusi dall’istruzione superiore. Vi ha contribuito inoltre l’esigenza, nell’attuale società della conoscenza, del lifelong learning per cui è cresciuto il numero di adulti iscritti e, dunque, di lavoratori studenti. Infine, non si può sottovalutare la presenza di studenti provenienti da altri Paesi in relazione al crescente fenomeno dell’internazionalizzazione degli studi e dell’immigrazione. Pertanto le capacità di partenza degli studenti, per esempio, i loro stili di apprendimento, concezioni, aspettative e motivazioni sono assai diversificati. A fronte dell’aumento del numero degli studenti, inoltre, non si può sottovalutare l’elevato numero di insuccessi nel primo anno e nella durata più lunga del percorso effettivo universitario rispetto a quello ufficiale dei corsi e, neppure, le “lamentele” di docenti universitari stessi circa l’incongruenza tra la preparazione effettiva di molti studenti che si iscrivono all’università e i presupposti conoscitivi richiesti dal percorso universitario.
Privilegiando una prospettiva che intende coniugare il concetto di università di massa con quello di qualità, coerentemente con gli obiettivi democratici di sviluppo sociale, culturale ed economico di un Paese, diventa irrinunciabile che a un ingresso più allargato nel segmento universitario corrisponda una maggiore produttività in termini non solo di rapporto tra iscritti e laureati ma anche di raggiungimento effettivo, da parte coloro che si inseriscono nel percorso, delle abilità e delle competenze perseguite. È sicuramente una sfida non facile, ma a cui a mio avviso non si deve rinunciare se ci si pone in una prospettiva di equità. Un’utenza più disomogenea e con motivazioni diversificate pone al sistema delle esigenze più articolate e comporta delle risposte più adeguate tra le quali una didattica più coinvolgente ed efficace rispetto alla modalità didattica tradizionale prevalentemente unidirezionale.
Il Processo di Bologna ha, tra l’altro, inteso favorire una più ampia partecipazione all’istruzione superiore e ridurre il numero degli abbandoni e il periodo di permanenza all’università. L’ottica è prevalentemente quella di puntare sul capitale umano per lo sviluppo economico e per svolgere un ruolo chiave e competitivo a livello mondiale tenendo conto dei processi di globalizzazione di mercato e dello sviluppo continuo e rapido delle tecnologie informatiche e comunicative. L’obbligo di rendicontazione (accountability) delle scelte e della produttività e la certificazione della qualità sembrano riflettere molto spesso una logica esclusivamente di tipo economico per la rilevanza assunta dal sapere nella competizione economica tra i diversi Paesi. Tuttavia, la più ampia partecipazione all’istruzione superiore risponde anche alla richiesta di istruzione superiore a fini egualitari. Può essere indirizzata anche in tale direzione la necessità, indicata come priorità nei documenti europei, di produrre innovazione sulla base di un’integrazione tra didattica e ricerca e di migliorare i contesti di apprendimento degli studenti per garantire loro adeguate condizioni per il completamento degli studi. Non si può tuttavia pensare che tali cambiamenti si realizzino senza accompagnare tali “richieste” con mirate esperienze formative per gli accademici. Queste sono sollecitate anche dalla richiesta posta al corpo docente di saper costruire curricoli in relazione all’esigenza di una progettazione curricolare collegiale che espliciti gli apprendimenti attesi, come pure dai nuovi compiti connessi alla necessità del riconoscimento degli apprendimenti pregressi allo scopo di attuare con successo le politiche del lifelong learning relative all’istruzione superiore.
È indubbio infine che una sollecitazione nei confronti della realizzazione di percorsi volti a sostenere il miglioramento della competenza didattica dei docenti universitari è derivata anche dall’affermarsi delle Tecnologie informatiche e comunicative e dall’esigenza di conoscerne e saperne applicare le potenzialità che esse offrono da un punto di vista didattico. Si può ben capire che in tale contesto le competenze didattiche dei docenti devono essere non solo più approfondite e più articolate rispetto al passato ma acquisite in specifici itinerari formativi.
In relazione agli elementi di cambiamento delineati penso che la competenza didattica dei docenti universitari possa costituire uno degli elementi utili a coniugare il concetto di università di massa con quelli di qualità e di equità.


La formazione iniziale all’università dei docenti della scuola, sia primaria sia secondaria, ha contribuito a prendere consapevolezza della tematica di cui stiamo parlando?

Sicuramente. Alla necessità di superare un insegnamento prevalentemente di tipo unidirezionale ha contribuito anche il crescente ruolo affidato all’università in diversi Paesi nella realizzazione dei curricoli per la formazione iniziale degli insegnanti di scuola primaria e secondaria. In particolare ci si è posti il problema dell’impatto di modelli didattici tradizionali sui futuri insegnanti e si è analizzata la figura del docente universitario quale formatore dei formatori del sistema scolastico. Per esempio a metà degli anni Ottanta c’è stato un interessante seminario organizzato dall’UNESCO proprio sul rapporto tra insegnamento universitario e formazione dei futuri insegnanti di scuola. Ad esso ha partecipato anche Mario Gattullo (con il quale ho avuto la fortuna di lavorare per due decenni a livello di ricerca scientifica e di didattica), che si è tanto battuto per una formazione iniziale universitaria. Consapevole delle carenze della didattica universitaria, a proposito della formazione per insegnanti di scuole elementari e materne all’università egli affermava: “Come faranno i futuri maestri a praticare bene quel che i loro “maestri” praticarono male?” e per quelli delle secondarie poneva il seguente interrogativo: “La Scuola di specializzazione potrà formare gli insegnanti a collaborare tra loro solo se chi vi insegna avrà prima fatto altrettanto”. Il dito tuttavia non veniva da lui puntato soltanto sull’impreparazione didattica dei docenti universitari quanto soprattutto sull’indifferenza istituzionale verso i problemi dell’insegnamento, rintracciabile anche nel non considerarlo in generale un “oggetto” degno di ricerca e importante ai fini della carriera accademica.

Quali le modalità in base alle quali organizzare la formazione?

Pur rimanendo problematica la definizione di una formazione professionale specifica alla didattica universitaria ampiamente condivisa, essa è ormai da anni un’esigenza riconosciuta a più livelli. In molti Paesi sono stati i governi, nell’ambito di riforme ampie dell’istruzione superiore, o anche con decreti specifici, a dare indicazioni in questo ambito. Le applicazioni variano da Paese a Paese e da istituzione a istituzione. Un ruolo chiave è in genere svolto dagli Educational Development Units o Centres come centri di supporto o consulenza alle istituzioni e ai singoli docenti; anch’essi risultano organizzati in modo diversificato. Inoltre, tali strutture a sostegno del miglioramento dell’insegnamento e dell’apprendimento e dello sviluppo professionale dei docenti non sono una prerogativa europea.
Da un mio punto di vista, tenendo conto delle esperienze realizzate in molti altri Paesi di vari continenti, va considerato il problema di un percorso di formazione iniziale riconosciuto e certificato per coloro che devono essere assunti o neoassunti. Tuttavia, accanto a tale esigenza, mi preme qui sottolineare l’aspetto del processo di sviluppo professionale per evidenziare che la formazione didattica è un processo continuo e che non può considerarsi completato una volta per tutte. Considerando i molteplici e sempre più complessi impegni richiesti ai docenti universitari essa deve essere mirata e compatibile con gli altri compiti. Pertanto la formazione alla didattica va interpretata in modo molto diverso rispetto agli insegnanti degli altri ordini di scuola, né si può pensare a progetti standard; ci sembra piuttosto maggiormente utile far riferimento a situazioni formative diversificate che sappiano rispondere a specifiche problematiche. C’è però un aspetto imprescindibile: se si è d’accordo sulla necessità della formazione occorre considerare che le scelte culturali sono sempre scelte politiche e non si può ignorare o sottovalutare l’importanza di risorse o non chiamare in gioco l’istituzione. Sicuramente dalle esperienze realizzate emerge che un effetto scoraggiante è la non valorizzazione della formazione.

Infine, qual è la ragione per cui il volume è sia in italiano sia in inglese?

La tematica dell’imparare a insegnare all’università è ancora per così dire magmatica. Come emerge nel volume e come mette in evidenza Luzzatto nella Postfazione in relazione all’analisi dei quattro contributi prodotti da docenti di quattro Paesi europei, da un punto di vista scientifico i diversi gruppi di studiosi che studiano la tematica e la praticano si stanno muovendo senza riferimenti sicuri e condivisi, sperimentando approcci autonomamente elaborati. Per questo ho pensato che, oltre all’italiano, potesse essere utile la lingua inglese.


Giuliana Santarelli