venerdì 30 dicembre 2011

Aspettando il 2012. Idee e considerazioni.

Giuliana Santarelli

Le pagine della rubrica “Essere insegnanti” su “Riforma” ci dicono che la scuola può essere raccontata per smontare la diceria dello sfascio, che può darsi un’immagine più dignitosa attraverso le parole dei suoi protagonisti, e allora il racconto di chi vi lavora serve a ritrovare un’epica dell’insegnamento. Noi insegnanti pensiamo che la scuola non possa rinunciare al suo compito di essere un’opportunità per tutti perché essa accoglie e valorizza intelligenze.
In questa rubrica molte maestre hanno scritto oppure hanno rilasciato un’intervista sulla loro attività didattica. Abbiamo raccontato insieme di documentazione, narrazione e lettura, tecniche della scuola attiva, progettazione, autonomia scolastica, sperimentazioni perché, come dice Stefania Maiani nel libro Vuoi differenziARTI? Percorso di riciclo artistico nella Scuola dell'infanzia, IC n. 11 Bologna, Scuola dell'Infanzia Statale “G. Garibaldi”, le maestre si interrogano, e le domande sono importanti. Nelle loro risposte compare, nonostante quel che si dice, la scuola dell’identità, dei percorsi, delle regole.
Abbiamo avuto per anni una situazione di confusione, dove le domande di tanti hanno creato solo caos, perché bisogna avere risposte per le domande, altrimenti esse fanno da cassa di risonanza alle incertezze. Anni di Gelmini, di silenzi, di disorientamento.
Sappiamo anche che c’è sempre qualcuno che approfitta della confusione per occupare un posto privilegiato allo scopo di lanciare idee e teorie prestate o presunte, mascherate da attualità e valori, e la confusione aumenta. Colpita dai tagli, stremata da continue riforme che le hanno tolto centralità e ruolo, la scuola è invece decisiva per il Paese. Copiamo dai paesi stranieri, perché? Rinnoviamo e miglioriamo invece modelli perduti e confrontiamoci anche con orgoglio. La scena attuale è scoraggiante, bisogna innanzitutto ricostruire un rapporto con le nuove generazioni. Oggi la scuola è più povera di persone e di risorse, mortificata com’è ha perso il prestigio di cui ha bisogno. E’ urgente salvare le esperienze pedagogiche di valore, stringere patti con le famiglie e i ragazzi, aprire ad azioni condivise. Serve lanciare una rinnovata alleanza fra i lavoratori della scuola, le famiglie, l’amministrazione, l’università, le organizzazioni sindacali, tutta quella parte di città che ha a cuore i servizi educativi e scolastici e che hanno contribuito a farne grande la storia. Per essere all’altezza di questa tradizione dobbiamo ripensare a come rispondere oggi alla domanda di educazione e di istruzione. Sarebbe importante una forte ispirazione pedagogica capace di garantire la valenza educativa e l’unitarietà degli interventi e di tenere insieme quanti nella nostra città si occupano in senso ampio di scuola. Senza dimenticare l’elogio degli insegnanti, perché la tecnologia non può sostituirli. Spesso sono messi sotto accusa, dal ministro, dai genitori, eppure non possono essere rimpiazzati da un computer, proprio perché sono umani e come tali possono condividere, con i ragazzi, anche il linguaggio del PC. Gli insegnanti che occupano più spazio nella memoria sono quelli che creano un’alta tensione per diventare indimenticabili, da I ricordi mi guardano, Iperborea, uscito il 18 novembre, scritto dal premio Nobel 2011 per la letteratura Tomas Tranströmer. Potrebbe essere un obiettivo, rendersi indimenticabili per gli allievi che incontriamo nel nostro lavoro. Sono state realizzate in città, in quest’autunno, due iniziative che hanno illuminato aspetti cruciali per l’educazione. La prima riguarda il Seminario Internazionale che si è tenuto il 14 settembre nell’Aula Absidale di Santa Lucia “Saperi che servono. La ricerca umanistica e sociale in un’età di riforme”. Patrocinato dall’Università di Bologna, vi hanno preso parte esponenti e rappresentanti della Facoltà di conservazione dei Beni Culturali, Lettere e Filosofia, Psicologia, Scienze della Formazione, Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, Scuola Superiore di Studi Umanistici, Osservatorio della Magna Charta. Il comitato promotore era formato da ricercatori appartenenti a diverse facoltà. Durante i lavori si auspica una contaminazione fra sapere umanistico e tecnologico che porti a non seguire solo quello che è utile. Ėmile Zola fonda la figura dell’intellettuale moderno che parla di qualcosa di non utile. Un moderno pessimismo, arcaico e resistente, anima e sottende il discorso dei relatori nella mattinata, che sottolineano l’inclinazione relativistica della cultura quando non fa posto all’altro e mette al centro dell’attenzione un esasperato “noi” sempre più problematico, sotto la minaccia di una resa immediata e della messa in crisi di valori. Negli interventi dei relatori si auspica un’alleanza necessaria fra studiosi umanisti e scientifici, dove gli umanisti si propongano come mediatori fra le persone fisiche, la lingua, la società. Gli umanisti, formatori dei formatori, appartengono alla scholé, che ha fra i suoi compiti quello di formare al sapere critico di ciò che non serve e che riguarda tutti, a quel sapere umanistico preposto alle domande giuste. Aristotele chiama scholé, scuola, il periodo di vacatio che viene concesso all’infanzia e all’adolescenza degli uomini liberi prima dell’inizio della vita attiva, e durante gli anni in cui le giovani facoltà sono più ricettive. E’ allora che bisogna seminare quel che lieviterà per tutta la vita e che verrà raccolto in un futuro felice proprio della maturità. Spetta dunque alla scuola gettare le basi della maturità libera e civilizzata. Quando si separano i saperi che servono da quelli che non servono si segue una logica utilitaristica, si ubbidisce alla coazione dell’utilità. Le democrazie hanno bisogno di cultura umanistica, di humanitas al sevizio della democrazia, mentre è pericoloso privilegiare ricerche e percorsi formativi che trovano riscontro immediato. Dal Medioevo a oggi la definizione aristotelica della scuola non è mai stata smentita e la democrazia moderna ha voluto estendere a tutti i cittadini la possibilità di godere del privilegio ateniese della scholé. Oggi questa idea generosa non è più oggetto di un’adesione unanime ed entusiasta. A qualcuno la scholé aristotelica sembra un lusso inutile. La scuola utilitaria, al servizio del mercato, serve a procurare un lavoro, non a formare uno spirito libero e critico, a educare un gusto, a risvegliare doti. Altri farebbero volentieri a meno di qualsiasi scuola, sono i padroni di un mercato onnipresente che ha bambini e adolescenti come clienti ed è a portata di mano coi suoi prodotti. In questa nuova scuola si sostituiscono le facoltà mentali naturali con quelle artificiali. Quindi il problema della scuola è grande, urgente. Si tratta forse di umanisti contro utilitaristi come nei secoli andati, con altri nemici, sempre più potenti che prosperano fra di noi? Si invoca da più parti una paideia nuova e antica di cui oggi sentiamo tanto la mancanza. Non stanchiamoci di pensare a come ricostruire il rapporto scuola-università-istituzioni cittadine per una rinnovata circolazione delle idee e dei saperi, saperi che devono necessariamente incontrarsi, e occorre far capire ai giovani che il suolo che calpestano e la città che abitano è nata dall’incontro di queste forze.
Un’altra iniziativa da considerare: Il sistema scolastico regionale alla luce degli esiti dell’indagine PISA 2009. Bologna 7 novembre 2011, Convento San Domenico, Salone Bolognini, Piazza San Domenico 13. Cristina Balboni interviene al posto di Patrizio Bianchi, Assessore alla Scuola, Formazione Professionale, Università e ricerca, Lavoro, Regione Emilia-Romagna.
Il suo intervento fotografa la situazione della scuola nazionale, da cui sono tratti anche i dati di quella regionale. La nostra è una scuola inclusiva che si fa carico di molte problematiche, ma la scuola di questa regione, quando la confrontiamo con quella delle altre nazioni europee, non registra il successo, o meglio, lo registra solo parzialmente perché la situazione è variegata e la formazione dei professori sembra l’anello debole del nostro sistema educativo. Servono azioni di sistema e decisione politica ed educativa, afferma Balboni quando interpreta i dati, in una società che si interroga sul futuro delle nuove generazioni e che deve proporsi in grado di trovare una logica di integrazione di sistemi, perché la qualità degli apprendimenti riguarda tutto il contesto sociale. Balboni indica anche quali sono i compiti dell’Invalsi: misura la posizione relativa di un sistema rispetto agli altri e vale anche per le singole scuole. Invalsi è uno strumento diagnostico poco diffuso, questa è la seconda indagine, alla prima l’Emilia Romagna non ha partecipato, perché la scuola si pone come centro di resistenza. Molti sostengono che non si può valutare, che è una cultura del dato quella che risulta, che la quantità è meno significativa della qualità, che si fa uso di test standardizzati, che il criterio di efficienza non è sempre un pregio. Altri sostengono che siamo figli di una cultura idealista e che la rendicontazione del MPI è scarsa, che l’informazione quantitativa può essere valorizzata e intesa come bene pubblico. La scuola media superiore dell’Emilia Romagna registra un divario troppo ampio fra il liceo e la formazione professionale, divario che conferma l’ineluttabilità di percorsi di studi più bassi per i ceti meno abbienti.
In sede conclusiva si ribadisce: questi dati ci dicono che, per come si realizzano la nostra politica di inclusione e innovazione, ci sono motivi di soddisfazione, ma anche di riflessione. Serve una nuova professionalità degli insegnanti perché i punteggi PISA sono predittori e i dati vanno interpretati. Gli stati che usano meglio la valutazione quantitativa e che tengono all’istruzione si propongono come impegno che tutti gli studenti riescano.

Viviamo in una società dell’insufficienza sul piano economico, ecologico, etico, ha detto di recente il Preside della Facoltà di Agraria Segrè agli studenti per sollecitarli, non solo ad indignarsi, ma anche rimboccarsi le maniche. Viviamo in mondo dove i filosofi discutono e si contrappongono a proposito di intuizione realista e intuizione ermeneutica, confermando che questo mondo non può essere semplicemente compreso con un solo criterio, anzi.
Viviamo in una democrazia che incorpora doveri, diritti e tecnocrazia. Quali sono le domande giuste?
Apriremo un dialogo con alcuni dirigenti, consulteremo riviste, frequenteremo biblioteche.

venerdì 30 settembre 2011

Alcune riflessioni sulla “contro-riforma” della scuola.

Ira Vannini

Il 18 dicembre 2006 viene emanata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio la Raccomandazione relativa a competenze chiave e apprendimento permanente.
Si tratta di un orientamento di estrema rilevanza per tutti gli stati dell’Unione che hanno a cuore la qualità dell’intero sistema di istruzione. Ponendosi nella prospettiva aperta dal Consiglio di Lisbona del 2000, che individuava le competenze di base per l’apprendimento permanente e le strategie per il loro raggiungimento entro il 2010 – la Raccomandazione del 2006 sottolinea l’urgenza di una principale finalità dei sistemi di istruzione: quella di dotare tutti i giovani di competenze fondamentali al fine di garantire loro un autentico diritto alla cittadinanza attiva.
Le competenze chiave che vengono definite all’interno del documento europeo – quali la capacità di comunicare nella lingua madre e nelle lingue straniere, le abilità matematiche e scientifico-tecnologiche, le metacompetenze connesse alle strategie di apprendimento e le abilità in ambito sociale e civile – si pongono come richieste fondamentali anche per il nostro sistema scolastico italiano il quale si trova di fronte a quella che l’OCSE individua come la “sfida dell’equità”. Equità intesa come qualità intrinseca di un sistema di istruzione democratico, capace di garantire a tutti, non solo l’accesso alla scuola e il prolungamento del percorso formativo di base, ma anche e soprattutto elevate competenze, grazie a una scuola e a una didattica che siano insieme “più unitarie e più flessibilmente differenziate”. L’unitarietà del sistema e degli obiettivi da raggiungere costituiscono infatti aspetti imprescindibili di una scuola equa, che sa assumersi la responsabilità – attraverso la realizzazione effettiva di una didattica flessibile – di portare tutti i giovani al raggiungimento di quelle competenze che a livello mondiale sono ormai considerate sostanziali per donne e uomini che vogliano costruire una società più democratica, capace di pensiero critico e di porre un freno a tendenze massificanti e di povertà culturale.
A fronte di ciò, i dati recenti dell’OCSE, in particolare quelli derivanti dalle indagini OCSE/Pisa sulle competenze dei quindicenni, hanno evidenziato che, soprattutto in paesi come l’Italia, i risultati scolastici degli studenti tendono a riproporre, rafforzandole, le disuguaglianze socio-economiche esistenti nella società. I risultati, poi, nell’ambito di competenze di base come la comprensione della lettura o le abilità matematiche, sono fortemente preoccupanti e descrivono ampie differenziazioni interne al sistema scolastico nazionale: non solo tra nord e sud del paese, ma anche tra scuole di “serie A” e scuole di “serie C” all’interno delle singole regioni, e fortemente anche nella nostra Emilia Romagna!
Dinanzi a tali questioni, le scelte della politica scolastica italiana degli ultimi cinque anni si sono poste con un atteggiamento non sempre coerente; più spesso ci sono state disposizioni ambigue di fronte alle sempre più pressanti richieste comunitarie di garantire la qualità e al contempo l’equità del nostro sistema di istruzione. La cosiddetta Riforma Moratti (Legge 53/2003) ha introdotto in modo unilaterale nei curricoli scolastici un’idea forte di personalizzazione, che valorizza e dà enfasi a un diritto alla diversità che, pur fondamentale nella scuola, non può non essere bilanciato da ideali e finalità altrettanto forti connesse al diritto all’uguaglianza.
Il diritto alla diversità, infatti, se da un lato evidenzia la necessità fondamentale di garantire a ciascun bambino la valorizzazione delle sue attitudini personali e lo sviluppo di quelle abilità in cui dimostra di poter eccellere, dall’altro lato porta con sé il pericolo di una completa deresponsabilizzazione della scuola nei confronti dell’impegno nella didattica. Una didattica cioè che dovrebbe sapersi sintonizzare con le diverse esigenze formative e i diversi stili di apprendimento di ciascun alunno, in modo da portare tutti a raggiungere quelle competenze che sono basilari per agire da cittadini nella società e per le quali non esiste alcuna base scientifica che porti a teorizzare la necessità di una predisposizione naturale.
Nel 2007, le indicazioni della Riforma Moratti sono state poste tra parentesi e sostituite da un provvedimento normativo del Ministro Fioroni che ha avuto lo scopo di fornire indicazioni nazionali (Nuove Indicazioni per il curricolo del 31 luglio 2007) per i curricoli della scuola di base in termini soprattutto di traguardi formativi da raggiungere. Insieme ad esse, è stato raggiunto un risultato di portata storica: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione ai 16 anni di età, formalizzato dopo lunghi decenni di dibattiti con il decreto ministeriale n. 139 del 22 agosto 2007.
Il merito principale che hanno avuto i provvedimenti del 2007 - nonostante i responsabili del mondo politico e del dibattito pedagogico-scientifico non siano riusciti a comunicarlo adeguatamente e a farne comprendere la vera portata all’interno del mondo della scuola – è stato quello di delineare l’orizzonte necessario di una scuola rinnovata e a dimensione europea, coerente cioè con lo scenario di una scuola equa e di qualità che l’Europa e l’OCSE vanno auspicando sempre più negli ultimi dieci anni. Tali provvedimenti non rappresentano forse un passo risolutivo verso una completa riforma della scuola, tuttavia essi costituiscono una condizione imprescindibile affinché la scuola e coloro che hanno responsabilità politiche e scientifiche nell’ambito dell’educazione possano finalizzare il loro impegno verso una direzione comune, verso una più definita e condivisa “idea” di scuola.
Nel settembre 2008, il quadro descritto è stato purtroppo profondamente scosso dall’emanazione di un decreto legge (il n. 137 del 1 settembre 2008) relativo a “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”. Tale decreto, convertito nella legge 169 del 30 ottobre 2008, non sembra a prima vista delineare un coerente disegno innovativo all’interno del quadro precedentemente descritto in quanto non evidenzia una strutturata e organica proposta di riforma della scuola di base; solo introduce una serie di provvedimenti di “restaurazione” che riprendono una serie di modalità del “fare scuola” antecedenti alle normative degli anni ‘70: la valutazione in decimi del comportamento degli studenti della scuola secondaria di I e II grado, la valutazione in decimi nella scuola primaria e secondaria di I grado, la riduzione del tempo scuola, l’insegnante unico nelle classi di scuola primaria.
Tuttavia, ad una lettura più attenta, che tenga in considerazione soprattutto gli immani tagli “economici” previsti per i prossimi anni, emerge più chiaramente il disegno di “riforma” celato dietro questi provvedimenti: un attacco durissimo alla scuola pubblica e alle sue possibilità di realizzare effettivamente la promozione delle competenze degli allievi in un’ottica democratica.
Sancito attraverso l’iter legislativo del decreto-legge, provvedimento governativo utilizzabile in casi straordinari di necessità e urgenza, il decreto 137 viene emanato, non solo senza una previa discussione parlamentare, ma anche senza la possibilità di un ampio dibattito istituzionale all’interno del mondo della scuola e della ricerca pedagogica. L’urgenza, ovviamente, è motivata da scelte di tipo finanziario.
Approvato, con pochi ritocchi, come Legge 169, oggi tale riferimento legislativo è entrato prepotentemente in un quadro normativo costruito con fatica, impegno e competenza negli ultimi 40 anni, a partire dalle innovative (oggi quasi “rivoluzionarie”) normative degli anni ‘70. Esso prospetta una scuola dalle caratteristiche tradizionali, ben lontana dalle innovazioni che le ricerche empiriche nazionali e internazionali sulla qualità dell’istruzione richiederebbero.
Le questioni che tale legge solleva sono molteplici e vengono a deteriorare l’impianto pedagogico di una scuola democraticamente orientata e di una professionalità docente centrata specificamente sui caratteri dell’intenzionalità progettuale. In particolare, la re-introduzione del “maestro unico” nella scuola primaria rappresenta un aspetto paradigmatico di un disegno di autentica “controriforma” di tutta la scuola dai 3 ai 16 anni che, unitamente alle 24 ore di impegno dell’insegnante solamente sulla classe e all’abolizione delle compresenze (anche laddove si prospetta la soluzione del maestro prevalente), disconferma in modo evidente l’idea di una professionalità docente che si qualifica sostanzialmente nella progettazione intenzionale dell’attività educativa e didattica; nel confronto e nella discussione collegiale; nella capacità di riflessione, valutazione e autovalutazione al fine di governare con competenza il curricolo. Negando tutto ciò, l’insegnante “unico” (o prevalente che sia) viene ad essere considerato come un mero esecutore della didattica in classe, non importa se progettata e consapevole oppure casuale, ciò che sembra importare è che non abbia un’idea delle finalità democratiche dell’insegnamento e, anche se l’avesse, non abbia tempi, spazi e condizioni istituzionali per perseguirle e realizzarle.
I rischi dunque che la Legge Gelmini pone all’interno della scuola primaria, e le ripercussioni che essi hanno su tutti i livelli scolastici, sono notevoli. L’avvento dell’insegnante unico, la diminuzione drastica del tempo-scuola, l’impossibilità di proseguire la modalità didattica delle compresenze – unitamente anche alla reintroduzione dei voti in decimi non supportata da alcuna indicazione per la realizzazione di serie prassi valutative di tipo formativo e sommativo – costituiscono un insieme di aspetti che minano alla base le reali possibilità della scuola di operare in una prospettiva di individualizzazione e di promozione democratica di buone competenze per tutti gli alunni. Se si unisce a tutto questo il forte disinvestimento economico ed istituzionale sulla scuola, sulla figura professionale dell’insegnante e sulla sua formazione, ne emerge un quadro di forte preoccupazione.
In risposta a tutto questo, si evidenzia l’urgenza, a livello di società civile, di prendere consapevolezza di come la complessa problematica dell’istruzione ci coinvolga tutti e ci richieda – in questo difficilissimo momento storico, politico e culturale – un deciso impegno al fine di immaginare e realizzare azioni di autentico sostegno alla scuola pubblica. La possibilità di discutere in varie sedi dei problemi della scuola – evitando di sottostare solo alla logica del senso comune o del semplice riferimento alla propria esperienza di scolari, ma promuovendo invece la logica del confronto, della competenza, del rigore metodologico e delle decisioni fondate su dati empirici, del desiderio di approfondire le questioni con senso critico – costituisce oggi una preziosa opportunità e insieme una grande responsabilità per ciascun cittadino.
La progressiva costruzione di una coscienza civile sul concetto di qualità della scuola e sulle finalità costituzionali della scuola pubblica rappresenta oggi un’urgenza fondamentale per la nostra società democratica e, in questo senso, le donne e gli uomini che credono nei valori della democrazia non possono che continuare a svolgere l’importante ruolo di stimolo, di promozione e sostegno di tale dibattito al fine di giungere a prospettare una concreta proposta di rinnovamento del nostro sistema di istruzione e formazione.

venerdì 15 aprile 2011

Un pensiero perduto?

La didattica della ricerca non ha più, oggi,
quell’aspetto attivistico del passato, quanto quello
del problem solving, della “didattica dell’errore”,
del costruttivismo cognitivo…

Franco Cambi, Saperi e competenze

Dai trenta punti di Calais, alle esperienze di oggi.

Alla fine degli anni venti il movimento delle scuole attive fa un salto di qualità e passa dalla frammentazione conseguente alle numerose iniziative a una pratica nell’educazione attiva con metodi e tecniche generalizzabili. Nel 1921, nel corso della riunione annuale della Ligue de l’éducation nouvelle, a Calais, viene stabilito l’elenco di 29 punti (diventeranno 30 nel 1925) che caratterizzano il movimento e vincolano i suoi aderenti. La definizione Education nouvelle era stata usata, fino allora, con totale libertà. In questa occasione si stabilisce che una esperienza che voglia definirsi come appartenente all’Educazione nuova deve realizzare almeno quindici dei 30 punti individuati. I trenta punti di Calais iniziano col delineare l’organizzazione di una scuola e arrivano a formulare un progetto di educazione alla cittadinanza. Si riporta dai documenti:
Dieci principi riguardano l’organizzazione generale:
- l’Educazione nuova è un laboratorio di pedagogia pratica che si propone di servire di suggerimento alle scuole ufficiali;
- l’Educazione nuova è un internato in atmosfera quanto più è possibile familiare;
- l’Educazione nuova è stabilita in campagna;
- l’Educazione nuova raggruppa gli alunni in padiglioni;
- l’Educazione nuova pratica la coeducazione dei sessi;
- l’Educazione nuova deve comprendere almeno un’ora e mezza al giorno di lavoro manuale;
- la falegnameria occupa il primo posto fra i lavori manuali. Il giardinaggio e l’allevamento sono pure consigliati;
- devono essere possibili lavori liberi;
- l’educazione fisica è realizzata mediante la ginnastica naturale, i giochi, gli sport;
- campeggi ed escursioni.
Dieci principi riguardano l’educazione intellettuale:
- specializzazione spontanea accanto a cultura generale;
- sviluppare il giudizio piuttosto che la memoria;
- l’insegnamento si basa sui fatti e sulle esperienze;
- in conseguenza l’educazione nuova si appoggia sull’attività personale del fanciullo;
- l’insegnamento è fondato sull’interesse spontaneo degli alunni;
- il lavoro individuale consiste in ricerche sia attraverso fatti, sia fra libri, periodici, etc., e, in seguito, attraverso classificazioni secondo un ordine logico;
- il lavoro collettivo consiste nell’elaborazione comune di documenti particolari;
- l’insegnamento propriamente detto è limitato alla mattina;
- l’insegnamento non tratta più di una o due materie al giorno: la varietà deve sorgere dal modo di presentarle;
- l’insegnamento tratta poche materie per ciascun mese o trimestre.
Dieci principi riguardano l’educazione morale:
- l’educazione morale si realizza dall’interno e all’esterno, e cioè per mezzo della pratica, graduale del senso critico e della libertà;
- per l’organizzazione amministrativa e disciplinare si applica il sistema rappresentativo democratico;
- premi e sanzioni positive non si hanno se non come mezzo per promuovere l’iniziativa;
- premi e sanzioni educative consistono nel mettere l’alunno in condizione di raggiungere meglio il fine considerato come buono;
- autoemulazione;
- l’educazione nuova deve presentare un’atmosfera estetica ed accogliente;
- musica collettiva, canto corale, orchestra;
- l’educazione della coscienza consiste, per i fanciulli, soprattutto in racconti morali;
- la maggior parte delle scuole nuove osserva un’attitudine religiosa senza settarismi e pratica la neutralità confessionale;
- l’educazione nuova prepara il futuro cittadino non solo in vista della nazione, ma anche in vista dell’umanità.

Questi trenta punti hanno perso di attualità perché l’avvento delle nuove tecnologie, i cambiamenti dei rapporti economici e istituzionali, le riforme che si sono succedute negli anni e che hanno riguardato la scuola, fan sì che questa didattica sia da attualizzare. I cambiamenti che negli anni si sono succeduti non possono, tuttavia, cancellare le figure pedagogiche che ne hanno sottolineato e affermato il valore, mantenendo, per quel che ci riguarda, i punti fermi e ancorandola, come dice Cambi, alla ricerca, al costruttivismo, al pensiero problematizzante, alla motivazione, alle mappe concettuali.


Incontro Giuliano Vaccari nella scuola Giovanni XXIII, dove lavora.
“Questi (riferito allo schermo della LIM) sono i materiali su cui sono cresciuto, quelli del CEMEA. I CEMEA francesi, che sono ancora quelli tradizionali, sono anche oggi membri dei consuntivi dell’UNESCO, in Italia ci sono state tante litigate: il CEMEA di Firenze è morto per disaccordi fra i suoi componenti, ma i CEMEA internazionali lavorano anche oggi su queste cose. Queste indicazioni sono poi delle cose normalissime che non andrebbero nemmeno pubblicate, perché c’è un problema: noi le chiamiamo attività, ma nella scuola attiva parli sempre di esperienza, cioè si vive prima l’esperienza e in prima persona, perché qualcuno conduce un altro attraverso quell’esperienza con l’autorevolezza della sua esperienza, è possibile vivere su di sé le esperienze e attraverso quelle si impara. Così, dentro alle esperienze ci sono tutte le sequenze delle attività. I documenti della scuola sono le basi, certamente abbiamo anche i curricoli, intesi come scansioni degli apprendimenti, a livello di istituto. Io mi inserisco nei curricoli con questi metodi di lavoro, con questa impostazione, dico metodi perché non è uno solo, nell’epoca moderna sono molto mescolati: se una volta nell’educazione attiva si dava una grande importanza alla manualità, oggi la manualità fa i conti con tante altre cose, come la tastiera del computer e il mondo virtuale, però la manualità non è scomparsa, mentre generalmente nella scuola scompare perché è stata sostituita dalle fotocopie. Il vero problema non è la ministra Gelmini, che è un problema sì con lo scollamento della cultura, ma dentro a questo problema noi stiamo scontando la vecchia guardia del tempo pieno. Si tratta di un gravissimo errore, ci siamo fossilizzati su un modello che dopo trent’ anni, forse, non è più adeguato, intendo il tempo pieno classico, storico, di quaranta ore settimanali, due insegnanti, ci siamo anche un po’ consolidati. Di una cosa sono sicuro: meno di trenta ore settimanali con i bambini non portano a nessuna parte. Il vero problema è cosa c’è dentro alla scuola. Si lavora sulla fotocopia non sulla fatica di fare una cosa insieme sul quaderno. La fatica di costruire insieme al gruppo, agli altri, con una comunità, la conquista attraverso l’esperienza, questi sono i principi dell’educazione attiva, la conquista attraverso l’esperienza insieme agli altri. Allora è chiaro che la fotocopia in alcuni punti serve, ma abbiamo internet, che è una fonte straordinaria, quando apri trovi tutte le fotografie e i documenti, costruisci dei Power Point, con sequenze di fotografie. Una volta c’era un limite nell’educazione attiva storica, si riusciva a vedere poco, oggi invece, che avresti anche le documentazioni, sono scomparse le mani per costruire. Queste cose sono state dette in una maniera assolutamente perfetta e straordinaria dal consulente in educazione di Barak Obama, che la regione Emilia Romagna ha chiamato l’anno scorso a Bologna per la relazione introduttiva del nuovo anno scolastico.1 Se andiamo col pensiero agli apprendimenti, scrivere, muoversi sul foglio, impaginare hanno un’importanza fondamentale nella formazione della testa. I recenti studi di neurobiologia ci dicono che il cervello dei bambini di oggi ha delle modalità più complesse di apprendimento perché essi sono bombardati di informazioni, l’apprendimento avviene con delle sequenze diverse rispetto a quello di un tempo, più ordinato e povero, invece oggi la mondialità, il fatto che questi siano i cittadini del futuro, induce inevitabilmente a mettere insieme una serie di strumenti e di visioni del mondo contemporaneamente. Non si può fare scuola senza avere i planisferi, senza usare il mappamondo, dal primo giorno della prima elementare, perché noi siamo nel mondo. Ad esempio la geografia, che adesso viene così bistrattata, sollecita la lettura della carta geografica, il muoversi sulla carta, e poi è anche bello, i bambini hanno una passione per il viaggio, per le diversità del mondo, è una cosa meravigliosa. Questo è un aspetto molto diverso dell’infanzia, che è veramente cambiata.
I bambini devono conoscere, per sapere la storia dell’umanità, i processi: il barattolo del latte che si trova nella scansia del supermercato ha una storia, e ogni prodotto ci permette di attraversare le epoche storiche, e con questa ottica, che poi è economica, i bambini diventano curiosissimi, domandano e il pensiero si forma in un modo che induce a lavorare per mappe concettuali che non parlano solo di storia, ma subiscono l’invasione della parte geografica di cui si ha bisogno per comprendere la storia di quel popolo, è una mappa che non è mai ferma. La cosa importante è che insieme alle domande i bambini fanno già dei ragionamenti, fanno dei collegamenti, perché se fossero solo domande ci si potrebbe vedere una passività del pensiero. Con questa modalità occorre molto tempo, bisogna stare attenti e calmi e lasciarli parlare. Con le mappe concettuali bisogna creare delle connessioni serie, con questo gruppo abbiamo cominciato quando erano in seconda, le intuizioni vanno sistematizzate all’interno della mappa, la mappa è anche uno strumento grafico. Nei quaderni c’è tutto. I nostri erano ragionamenti lineari, oggi invece le idee sono multiple e devono trovare le loro connessioni, bisogna saper mettere insieme per comprendere. La mappa aiuta i bambini ad avere sempre presenti se stessi e il loro possibile percorso.
Io faccio rappresentare moltissimo col disegno, ma rappresentazioni accuratamente scelte.Mentre io disegno alla lavagna loro disegnano sul quaderno. L’altra cosa che si dà per scontata e che loro fanno da soli, invece io sono alla lavagna, costruisco insieme a loro, gli racconto anche il progetto qual è, e poi cominciamo a costruirlo insieme, io ce l’ho mentalmente predisposto, in genere cambia totalmente durante il lavoro perché entrano le loro sollecitazioni. Lavoro soprattutto sulla biodiversità, il valore della biodiversità, perché più è alto il tasso di diversità più favorevoli saranno le condizioni di vita. Con la storia della quantità delle spighe di grano che si producevano nelle diverse epoche storiche abbiamo fatto un aerogramma nel quaderno di matematica. I bambini capiscono come le cose si intrecciano, purché non si intreccino confusamente. Poi ci sono le attività di routine: all’interno di questo tipo di lavoro bisogna imparare a leggere e a scrivere meglio degli altri perché se si sa leggere e scrivere e far di conto bene si può lavorare così, altrimenti non è possibile, la strumentalità è finalizzata a questo lavoro, costruiscono tabelle fin dalla prima elementare. In lingua c’è un lavoro raffinatissimo, sistematico e poi noi facciamo molto consolidamento continuo.
Dalla relazione di tirocinio di Maria Castegnaro
Ho svolto il tirocinio del II modulo presso la scuola primaria Giovanni XXIII, CD 1, al quartiere Barca. Questo cambiamento di percorso è stato dettato in parte da mie necessità personali che hanno incontrato la proposta interessante di partecipare alla documentazione delle attività e della mostra preparata per ricordare il “quarantennale” della scuola.
L'ideatore, colui che ha fortemente voluto questo evento e che lo ha coordinato, è il maestro Giuliano Vaccari. Io ho partecipato alle lezioni tenute da Giuliano e alle visite guidate per le scolaresche che venivano a visitare la mostra. La realtà del quartiere Barca è stata ed è tutt'ora molto complessa. Centro di immigrazione storico, negli anno '50 era l'immigrazione dal meridione, oggi è l'immigrazione extracomunitaria. Le sfide non sono mai finite per le agenzie educative del territorio. Il quarantennale è stato l'occasione per ripercorrere la storia della scuola, la storia delle sfide che ha affrontato. È l'occasione per riflettere più in generale sulle problematiche che ogni scuola affronta e su come sia prezioso serbarne memoria…
…Omaima qualche giorno dopo, durante il laboratorio di disegno, ci teneva molto a definirsi “ambrata”, “io sono ambrata, l'ha detto mia mamma!” anch'io, e anch'io rispondono prontamente Diana, Doha, Valentina e Siwar! Ancora mi colpiscono i nomi: Tamèr, Omar, Hamza, Ossama, Doha, Siwar, Blessing, Omaima, Valentina, Gabriela, Diana, Moamet, Sara, Gabriele, Lorenzo (bimbo cinese), Lorenzo bimbo italiano, Alessandro, Nicolò, Lorena... mi sfuggono i nomi degli altri bimbi. È evidente che mi colpiscono i nomi stranieri, perchè sono nuovi per me, e perchè sono tanti! Ho saputo che alle Giovanni XXIII l'utenza è per il 60% di origine straniera. Quante problematiche! Quante sfide![...]
È stato un forte impatto quello avuto con la classe seconda e con il maestro Giuliano. Ero curiosa di imparare cose nuove, una maniera innovativa di insegnare... invece ho imparato cose vecchie! Cioè una maniera di fare lezione e di guardare ai bambini che era innovativa quaranta anni fa e che paradossalmente è innovativa anche oggi. Ho affrontato questo tirocinio cercando di trovare un legame o il legame fra il passato e il presente, per quanto riguarda la realtà di quell'istituto. Ho trovato il bambino al centro della didattica, l'attenzione ai tempi individuali, la ricerca di esperienze vicine alla realtà quotidiana
Diario del tirocinio Maria Castegnaro: 16 aprile 2009, lezione di scienze
Per chiarire cosa intendo vado a raccontare semplicemente quello a cui ho assistito, una semplice lezione di scienze che ripercorre quanto fatto durante l'anno. Bisogna sapere che il maestro ha piantato insieme ai bambini un piccolo orto. In un grande vaso fuori dall'aula, nel cortile, hanno piantato semi di fagioli, carote e insalata. Durante l'anno scolastico hanno monitorato quanto avveniva. Hanno visto come crescevano i semi dei fagioli quando erano nel cotone. Una parte poi è stata messa nella terra e hanno visto come si sono sviluppate diversamente le piante che stavano nella terra rispetto a quelle che stavano in vaso. Ho sentito bimbi di 7 anni parlare di “cotiledoni” sapendo esattamente a cosa si riferivano. Era molto chiaro per loro come una pianta nasce dal seme, si sviluppa mettendo su le foglie, i fiori, come questi vengono impollinati e facciano poi i frutti. Sono ben chiare le relazioni fra le piante e il sole, le piante e l'acqua, l'importanza degli insetti e della “biodiversità”. Tutti questi discorsi importantissimi e non facili vengono fatti guardando e toccando dal vero. Mentre il maestro ripercorre il percorso dei semi di fagiolo disegna i passaggi alla lavagna e tutti copiano sul quaderno di scienze che è bellissimo, pieno di disegni che raccontano esperienze vissute direttamente.
Sempre sfruttando il mini orto un giorno abbiamo visto dei parassiti, i “minatori delle foglie”; abbiamo potuto osservare che le piante cresciute nella terra erano più sane di quelle cresciute nel cotone che invece erano letteralmente assalite dai parassiti, erano più piccole e più pallide. Queste cose studiate dal vero, toccate, annusate sono ben comprensibili e saranno poi la base per approfondimenti negli anni successivi.
Lezione di matemtica
Durante le lezioni di Giuliano per risolvere un problema di “seconda elementare” si impiegano anche due ore. Nessuno viene lasciato indietro, tutti devono capire, ogni passaggio è esplicitato e mai ovvio. Mentre si risolve il problema di Lea che deve comprare dei carciofi al mercato si impara a ragionare. [...]Una domanda e una operazione. Anche un'equivalenza è un'operazione. Due domande due operazioni.
Dal diario di tirocinio del 27 aprile 2009
Problema di matematica, Giuliano detta il problema un po’ alla volta. Durante la dettatura approfitta per ripassare anche grammatica e ortografia. Quando smette di dettare bisogna cominciare a ragionare per capire come si può procedere con il problema. Sono i bambini a ragionare e a trovare la domanda giusta da porre. Insieme si decide quale operazione si deve svolgere, si scrive e si risolve insieme. Il maestro continua a dettare un’altra parte del problema, si ferma per trovare un’altra domanda.
I problemi di matematica ruotano intorno ad alcuni personaggi introdotti fin dalla classe prima e affrontano ogni volta problemi che sono legati alla vita quotidiana. Ad esempio, la signora Gina deve comperare una lavatrice, deve scegliere qual è la più economica, andare a pagare alla cassa e controllare di avere ricevuto il resto giusto. Per risolvere tutti insieme un problema come questo ci si impiegano anche due ore, in pratica dall’ingresso a scuola fino alla ricreazione
Maggio 2010, relazione di tirocinio di Antonella Talarico
Interessante è stato seguire le lezioni di matematica del maestro Giuliano. Lezioni interattive, ricche di interesse e di partecipazione. Nei quaderni e nelle lezioni compaiono diversi personaggi inventati dai bambini per spiegare le varie situazioni di aritmetica: Ugo, Ada, Gino. I problemi non sono più statici, con le solite strutture formali, lo stesso soggetto, ma sono strutturati in forma di storia e di giochi, in modo tale che l’attenzione sia sempre viva e presente. Nelle spiegazioni del maestro non si parla solo di numeri e di calcoli, ma il maestro richiama e si collega alle varie discipline, anche a situazioni della vita reale. Ad esempio, in una lezione ha spiegato, partendo sempre da un problema, come riuscire a preparare la passata di pomodoro. Il maestro utilizza un lavoro molto originale, presenta ai bambini anche problemi senza parole, formati solo da figure a cui dà un valore numerico. Tutti lavorano insieme nel cercare una soluzione: si tratta di esercizi di logica, gli alunni sono abituati a trovarsi di fronte a quesiti di questo tipo, infatti non hanno difficoltà nella risoluzione. Lezioni di geometria
…In particolare ho seguito le lezioni di geometria che si basavano sulla costruzione degli origami, spesso in quella occasione c’erano difficoltà di rappresentazione spaziale e questo mi portava ad avere un ruolo attivo e ad intervenire in modo propositivo alle attività in classe, nel senso che partecipavo vivamente alla spiegazione e magari alla realizzazione con cartocino delle figure geometriche.
Osservazioni sul lavoro in classe
L’insegnante della classe, che si riconosce nel movimento dell’educazione attiva, ha qualcosa in comune con l’opera della mamma come la descrive Winnicott, quando parla della capacità di introdurre il bambino o la bambina ad un rapporto creativo con il mondo. Dice Winnicott che il senso della realtà non si costruisce nel bambino con l’insistere della madre sulla esteriorità delle cose esterne, ma con la capacità della madre di adattarsi ed adattare la realtà al bisogno del bambino e l’adeguato decrescere di questa disponibilità. Ugualmente l’insegnante mette in grado la classe di fare esperienze che lo confermino nella sua capacità di intervenire con affetto nel mondo, è un lavoro di mediazione. La relazione è una dinamo, non un obbiettivo in sè. La classe risulta sicuramente differente dalle classi tradizionali, infatti richiama il modello di classe di Frenet…Dalla mia osservazione emerge che il maestro non utilizza e non fa utilizzare agli alunni il manuale scolastico. Questa è una caratteristica dell’attivismo, il quale afferma che la pecca del manuale scolastico è quello di stabilire nero su bianco, ciò che i ragazzi debbano impare a fare. Il manuale apporta la scienza fredda, impersonale e anonima, non bisogna quindi munire gli scolari di una trentina di libri uguali per ogni materia ma occorre collocare questi libri e altri ancora nella biblioteca di lavoro, in modo da aver sottomano una più ampia documentazione… Freinet dà origine ad un tipo di pedagogia popolare laica, impegnata a riscattare socialmente la classe operaia laica. L'attualità del suo pensiero sta nella ricerca di tecniche per ristabilire il circuito di un corretto apprendimento, tra le vite e le esperienze di tutti i soggetti coinvolti nel processo formativo. Il rifiuto del verbalismo della lezione come unico strumento di azione didattica, la ricerca di un continuo e proficuo scambio di esperienze tra i soggetti spinsero Freinet alla ricerca di una strumentazione per modificare le condizioni di vita nella scuola, per creare un clima diverso, per migliorare i rapporti, per rendere più efficace tutto il processo educativo…Esso trasformò la scuola in una piccola comunità, all'interno della quale erano presenti: una costante cooperazione tra insegnanti e tra alunni ed insegnanti; laboratori sia per lavori manuali che per attività intellettuali in cui le attività venivano supportate da alcune tecniche come il testo libero, la tipografia, la corrispondenza interscolastica, il calcolo vivente e lo schedario autocorrettivo. L'esperienza concreta deve diventare spunto per lezioni di storia, geografia e calcolo in modo da far così aumentar, negli allievi, la motivazione e l'interesse ad apprendere. Il principio della scuola attiva è la legge del bisogno o dell'interesse.
La didattica attiva: come questa tradizione viene mantenuta nel lavoro della classe. Dalla relazione di tirocinio di Michela Loli, maggio 2010
I principi dell'educazione attiva che ho osservato in classe sono i seguenti:
- apprendimento attraverso il fare insieme;
- pluralità di strumenti e sussidi didattici;
- esperienze concrete;
- utilizzo delle mani;
- saperi costruiti insieme, non trasmessi;
- riflessione sull'esperienza effettuata.
Un esempio di lezione “attiva”
M: Oggi parleremo degli animali. Che cosa hanno in comune tutte le specie animali del mondo? Cominciamo da fuori, che cosa hanno?
A: La pelle
M: Si, tutti gli animali hanno un rivestimento esterno che tiene dentro tutto il resto. Il termine scientifico è epidermide. A che cosa serve il rivestimento esterno?
A: Perché altrimenti avremmo freddo
A: Per non far cadere gli organi
M: Esatto, per mantenere la temperatura e per contenere gli organi. Come hanno la pelle gli animali?
A: alcuni hanno il pelo
A: Alcuni ce l'hanno più grossa
(Giuliano dice i nomi di alcuni animali e chiede ai bambini come hanno la pelle).
M: La pelle serve per sentire è un organo di senso, come si chiama questo senso?
A: Tatto
M: E gli altri sensi?
(i bambini, con vari tentativi, elencano gli altri sensi).
Intervista a Giuliano Vaccari, insegnante e tutor di tirocinio
“La mia formazione è avvenuta fra gli anni ‘60 e ‘70 ed è legata prevalentemente ai movimenti dell'educazione attiva: ai CEMEA (Centri di Esercitazione ai Metodi dell'Educazione Attiva) di origine francese poi diventati anche italiani, all’ MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) e in particolare all'incontro di queste scuole con il pensiero montessoriano. L’idea pedagogica di fondo di questi movimenti è che si apprende attraverso il fare insieme, riflettendo poi sull'esperienza; quindi in campo educativo nella didattica quotidiana per le varie aree di apprendimento si lavora utilizzando il più possibile strumenti che si compensano fra di loro (libro, computer) ma soprattutto cercando di accompagnare il lavoro con esperienze concrete, vissute in prima persona sia dal punto di vista della relazione sia dal punto di vista del corpo, dei cinque sensi, in particolare attraverso l'uso delle mani, che nella scuola attuale ha perso molto significato, sostituito dalle cose già fatte (schede, fotocopie, computer). L'educazione attiva prevede il coinvolgimento di ciascun alunno in un’esperienza vissuta sia individualmente sia nel gruppo, valorizzando sempre l’elemento personale: si mette in condizione il bambino di capire come funziona il mondo che lo circonda e quindi di acquisire le varie competenze e gli apprendimenti, sperimentando in prima persona attraverso l'utilizzo di materiali che possono essere di vario tipo, per esempio l'utilizzo dell'origami in geometria. Lo stesso avviene per le altre materie, cercando di evitare la modalità dell'insegnante che parla e del bambino che ascolta, sostituito dal fare insieme.
All'interno di questo discorso c'è il repertorio dei materiali che si utilizzano. Molto spesso l'insegnante predispone materiali da lui pensati come schede di lavoro, raccolte di immagini, schemi di lavoro ma anche materiali audiovisivi ( per esempio serie di diapositive o prodotti informatici come cd, dvd o prodotti in Power Point, che sono l'evoluzione di sequenze di diapositive.)”

…Giuliano non utilizza il libro di testo, i saperi vengono ricercati e costruiti insieme sui quaderni, attraverso il dialogo e la partecipazione di ogni alunno. Il quaderno non è quindi, una semplice raccolta di esercizi e schede: è un libro prezioso, scritto a mano, curato, colorato, racchiude le conoscenze ricercate ed elaborate personalmente.
Ho trovato le lezioni molto coinvolgenti perché non si trattava della modalità trasmissiva tradizionale, nella quale l'insegnante spiega e gli alunni ascoltano e prendono appunti, bensì di un continuo cercare insieme le risposte, partendo da una domanda iniziale a cui ne seguivano a catena altre…
Dalla relazione di tirocinio di Clarissa Brigidi, maggio 2010
La presente intervista nasce da un’esigenza personale di approfondire e di rendere memoria all’esperienza di Villa Serena. Durante l’anno scolastico 1975/76, la scuola Giovanni XXIII non aveva più spazi sufficienti per ospitare tutti i bambini che vi facevano riferimento per stradario. Fu necessario spostare tre classi in una sede succursale, Villa Serena, in cui erano ancora funzionanti alcune sezioni di scuola speciale, una decina circa di alunni ancora frequentanti. Da soluzione di problemi logistici e organizzativi, la nuova situazione è così diventata opportunità di progettazione e sperimentazione per una esperienza didattica di grande interesse: da un lato la convivenza e l’interazione affettiva tra bambini di classi speciali e di classi normali, dall’altro la realizzazione di un modello di scuola a classi aperte, a laboratori disciplinari e a gruppi di attività manuali.
Ecco le parole del maestro:
“Impossibile dimenticare 5 anni di lavoro nei quali sperimentammo attività assolutamente all’avanguardia rispetto alla struttura rigida delle classi. Praticamente le classi, cinque, dalla prima alla quinta, esistevano solo sul registro e in realtà i bambini erano mescolati in gruppi verticali che lavoravano per laboratori relativi alle varie aree disciplinari.
Erano in realtà tutti laboratori di attività di produzione culturale molto concreti e terminavano sempre con la realizzazione di un prodotto che poteva essere una dispensa auto stampata al ciclostile o un manufatto creativo. C’era un clima assolutamente laborioso nello studio attraverso libri (di solito non quelli di testo), monografie, immagini, diapositive, materiali vari; un vero laboratorio di produzione di cultura secondo il metodo attivo della ricerca, per ipotesi di lavoro, per verifica delle ipotesi e giungendo a conclusioni parziali, sempre pervase dal dubbio e intercambiabili fra una materia e l’altra. Tutti cercavano, tagliavano, scrivevano, contavano, appuntavano, assemblavano, pareva un alveare laborioso dove tutti contribuivano al risultato. E’chiaro che in tutto questo lavoro si sviluppavano dinamiche assai complesse perché si potesse giungere alla collaborazione di tutti; si discuteva, ci si confrontava, si litigava anche, ma nello spirito comune di raggiungere comunque un risultato che sarebbe stato il risultato di quel gruppo e di quelle persone. I laboratori erano relativi a tutte le aree di apprendimento, i bambini erano mescolati fra classe prima e seconda in verticale e terza, quarta e quinta in verticale; a volte anche in gruppi con bambini di prima e seconda con quelli di quinta se si rendeva necessario un lavoro di tutoraggio tra i più grandi e i più piccoli.
I bambini diversamente abili lavoravano insieme agli altri, compresi quelli della cosiddetta classe speciale che avevamo trovato già funzionante quando ci trasferimmo in quella sede, infatti la scuola era conosciuta come una scuola speciale.
Che dire di personale? A distanza di tempo posso dire che fu un lavoro da pazzi, coinvolgente, accattivante e molto faticoso; il gruppo degli adulti doveva lavorare insieme, tutti a stretto contatto, la programmazione era precisa e stretta poiché si dovevano comunque rispettare anche dei tempi organizzativi e di produzione dei lavori finali. Il gruppo degli adulti preparava un sacco di materiali per i gruppi, tutti avevano chiari gli obiettivi di ciascun laboratorio che doveva essere molto pratico e produttivo poiché poi il lavoro doveva finire per consentire la rotazione di gruppi di bambini. Il gruppo degli adulti programmava insieme per le attività di grande gruppo e in unità più ridotte al fine di preparare i singoli laboratori, in genere da almeno due insegnanti; il gruppo poi si trovava periodicamente per sedute di supervisione condotte da un tecnico psicoterapeuta della ASL al fine di discuterne le dinamiche ed aggiustare il tiro delle relazioni e delle modalità di lavoro”.

L’esperienza di Villa Serena, da quello che si evince dalle parole del maestro, è stata ricca di significato perché si è caratterizzata per un impegno formidabile dei maestri a collaborare e a prendere decisioni condivise, ma soprattutto perché ha fatto intraprendere un percorso di integrazione tra bambini disabili che ha anticipato la legge 517 del 4 agosto 1977 per l’integrazione degli alunni con handicap. Si può sostenere che i maestri di Villa Serena abbiano avviato un vero e proprio percorso personale e collettivo di ricerca-azione…

Giuliana Santarelli

lunedì 31 gennaio 2011

Le “coloriture” in un Liceo di Bologna: un’occasione per riflettere sull’autonomia scolastica

Intervista a Ivana Summa, di Giuliana Santarelli
Una premessa:
Se i corridoi dell’Università si riempiono di studenti per esami o al termine delle lezioni, quelli del liceo Minghetti, durante le coloriture, negli intervalli, assumono un aspetto sui generis dovuto al fatto che tutti escono dalle aule contemporaneamente, si incontrano e parlano insieme. Si tratta di diverse centinaia di ragazzi, alcuni poco più che bambini. E vanno su e giù per le scale, formano capannelli, lo sguardo avanti a loro senza guardare, sembrano dire tante cose importanti che altri non sanno. E’ così da sempre nei corridoi della scuola superiore, bisogna ritornare con la mente alla propria. E se sappiamo di che cosa parlano con l’amica o con gli amici gli studenti universitari, perché ci siamo già incontrati, non conosciamo le parole di un adolescente ad un compagno di scuola. Gli adolescenti parlano una lingua diversa, inventata in quel momento, una lingua a cui gli adulti non hanno accesso, che ancora nessuno conosce, perché lui, l’adolescente, in questo stadio, in questo corridoio, è il nuovo, è niente e tutto, è quello che non è ancora in circolazione nel mondo degli adulti. Intimoriscono quando sono tutti insieme. Dal momento che non si possono sgridare, punire, reprimere perché con la coloritura si devono solo interessare, sapendo che loro sono già interessati perché hanno scelto (sarò prima, seconda o terza scelta) ma sono anche obbligati ad essere lì, costringono l’adulto a pensarsi, a chiedersi chi sono e ad avere paura di loro, lo inducono a barricarsi per darsi delle sicurezze. E si finge di non vederli e di non temerli. Il professore sconfigge questa paura col potere sulla loro vita e li domina ed essi lo ricambiano con le loro armi. Sguardo cattivo, che non sa dove scatenarsi, se su di sé o sugli altri. L’altro/adulto guarda questa inqietudine mutante, fermo sotto i suoi principi. Una battaglia, una partita giocata nel rispetto dei ruoli. Sono preparati, consapevoli, seri, educati, e tanti, ma anche critici, scettici, diffidenti, cattivi. E fingono di non vedere mentre si passa fra di loro, chiedendo permesso: è perché sono educati, o anche loro hanno paura? L’adolescenza, tutti lo dicono, è una stagione della vita dove i tratti dell’incertezza, l’ansia per il futuro, l’irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà convivono per celebrare in una sola stagione tutte le possibili espressioni della vita. Come scrive Freud: “La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita, non deve voler essere più che un gioco di vita”.



- Vorrei esordire dicendo che in questi ultimi anni la figura del preside è diventata sempre più staccata dalla didattica per diventare una figura amministrativa. Questa è stata una metamorfosi non voluta dal legislatore perché il profilo del dirigente scolastico, secondo l'art. 25 del decreto legislativo 165 del 2001, è così tratteggiato: il dirigente è colui che nella scuola valorizza le risorse umane e i processi innovativi ed è garante della libertà d’insegnamento, intesa soprattutto come ricerca, innovazione metodologico-didattica. Se poi penso anche agli ultimi concorsi per dirigenti scolastici, ad esempio, la parola innovazione nell’ultimo bando c’era ben sette volte, che sono moltissime.
Io sono tornata come dirigente nella scuola nel 2003 dopo dieci anni di assenza , perché ero comandata all’IRRSAE, dove mi ero occupata di formazione ed avevo partecipato a quel grande momento che è stato l'avvento dell’autonomia scolastica negli ultimi anni '90, con le sperimentazioni e i monitoraggi dei primi anni di sperimentazione. Sono rientrata a scuola perché avevo capito che l’istituto regionale di ricerca chiudeva ed ero interessata a capire come funzionava l’autonomia dal punto di vista del dirigente scolastico, come avevo scritto nei miei articoli, secondo la mia cultura preminentemente organizzativa. Non ho pensato a che cosa dovessi fare una volta a scuola perché l’avrei capito, quando mi sarei insediata nel mio nuovo ruolo: ogni scuola ha una sua storia, una sua politica, ha i suoi modi di fare edi essere, valori, principi e regole non scritte; insomma ogni scuola ha la sua cultura identitaria. Io mi son trovata al Minghetti, un liceo classico, scuola che non ho mai frequentato neanche da studentessa, e poi devo aggiungere che nella scuola superiore io ho fatto le supplenze all’inizio della mia carriera. Convinta del fatto che un dirigente scolastico deve essere un conoscitore di processi e non di prodotti, cioè processi organizzativi e gestionali, io sono andata molto tranquilla ma non sprovveduto perchè avevo progettato la mia mission. Infatti, alcuni anni dopo ho tenuto una relazione - a Lugano, nell'ambito di un seminario internazionale - sulla leadership dove ho raccontatola mia esperienza, di come avessi pianificato il la mia azione in quattro anni, che poi sono diventati sei. Avevo un progetto: capire come una scuola, con l’autonomia, possa fare ricerca per l’innovazione e lo sviluppo; anzi, preciso che io me ne ero andata dall’IRRSAE dicendo che avrei fatto ricerca a scuola, quindi avevo le idee molto chiare sulla ricerca che sorge dal basso, diciamo come ricerca/azione. E così,mano a mano che conoscevo la scuola e gli insegnanti, è nata una grande sintonia. Io mi ero accorta che questi professori sapevano vagamente dell’esistenza di una legge sull’autonomia, ma non avevano capito granché, che cosa significasse, perché nessuno mai aveva fatto per loro un’attività di aggiornamento. Negli anni precedenti in cui è stato preside Innocenti (Innocenti era una persona in gamba, uno di quei presidi di una volta che sapevano il fatto loro, anche sul piano pedagogico-didattico) erano state messe le premesse per l’innovazione, in particolare per l’innovazione che riguardava il curricolo. Devo fare una premessa: il Minghetti è un liceo classico che non aveva partecipato mai a nessuna sperimentazione, mentre il Galvani, l’altro liceo classico della città, vantava maxisperimentazioni con il linguistico, baccalaureat, indirizzi scientifici sempre basati sulle lingue. Insomma, tutta un'altra storia rispetto al Minghetti tanto che il Galvani oggi ha pochissime sezioni di liceo classico tradizionale; praticamente ha cambiato l’identità. Questo è successo anche al liceo Ariosto di Ferrara, perché il classico era entrato in crisi negli anni '70, e quindi i presidi avevano intrapreso la strada delle sperimentazioni autorizzate dal Ministero. Per me la storia dell’organizzazione è fantastica perché spiega tante cose: il Minghetti per moltissimi anni non aveva mai avuto un preside perché quello titolare, Tolmino Guerzoni, era comandato all’IRRSAE e veniva sostituito ogni anno con un docente incaricato. Dunque, la struttura ordinamentale della scuola era rimasta quella del passato con il vecchio schema orario e i vecchi programmi , perché nessuno l’ aveva mai guidata verso un'evoluzione di tipo sperimentale. Però per il Minghetti restare “classico classico” alla fine è diventata una "non scelta" vincente; diciamo che ha mantenuto la sua identità. C’è stato un periodo in cui tutti hanno cambiato fisionomia alle scuole. Ad esempio,a Ferrara le magistrali sperimentavano indirizzi scientifici, altri quelli umanistici; tutto questo sperimentare, secondo me, era bello, addirittura l’Ariosto di Ferrara fece la sperimentazione come scienze sociali, dando perfino l’abilitazione all’insegnamento nella scuola elementare. Il collega che mi aveva preceduto, il preside Giorgio Innocenti, lo aveva capito e dell’autonomia aveva compreso la questione della flessibilità del curricolo, cioè il fatto che una quota del monte ore delle discipline poteva essere utilizzata o per introdurre nuove discipline o per cumularsi con altre e realizzare delle attività formative non strettamente disciplinari. Io avevo fatto qualche anno prima una ricerca nelle seicento scuole circa della nostra regione, tutte, sia di base che superiori, che poi fu riportata in un libro sulla flessibilità del curricolo pubblicato dalla Direzione Regionale per l'Emilia-Romagna. In questo saggio io e il professor Giancarlo Sacchi - responsabile del progetto come IRRE/E-R - avevamo notato come le sperimentazioni andassero più forte prima dell’autonomia e non dopo; anzi dopo il 2000 le scuole si erano molto, come posso dire, ingarbugliate: le scuole avevano allargato il curricolo con attività pomeridiane ma non avevano fatto i conti col curricolo della stessa scuola, diciamo che, anziché lavorare sui mobili di casa, hanno lavorato sul giardino, hanno costruito una sorta di "déhors curriculare". Invece il preside Innocenti aveva lasciato in eredità alla scuola le cosiddette "coloriture" del ginnasio, deliberate dal collegio dei docenti senza grande consapevolezza sul piano logico-concettuale di cosa fossero queste coloriture.
Di fatto, quando sono arrivata nell'anno scolastico 2003/2004 al ginnasio si facevano le coloriture di tipo scientifico, musicale, artistico, ecc. Dunque, le coloriture ci sono già, ma solo al biennio ed erano incardinate nella sezione : i professori facevano un progettino, chi di dieci, chi di venti ore, spesso malvolentieri. Infatti, molti non ne volevano sapere, diciamo che durante l’anno facevano delle cose in più, però non erano attività aggiuntive, perché venivano realizzate in orario curriculare. Se, ad esempio, la coloritura era musicale, e si realizzava un'attività di musica del novecento, a volte si chiamavano anche esperti esterni, però era tutto molto estemporaneo perché non c'era un gruppo di ricerca che curasse l'attività dalla sua progettazione alla sua valutazione.
L’autonomia è così, quando metti il progetto nel POF è già approvato. Ai genitori, al momento delle iscrizioni, si diceva che era la coloritura di musica e avevamo spiegato, per la verità anche con molto imbarazzo perché non era chiaro neanche alla scuola, che avrebbero fatto qualche attività di musica, oppure di arte se la coloritura era di arte, oppure di matematica se era una coloritura scientifica. La parola "coloritura" non ha precedenti di natura didattica. Diciamo che è stata inventata prima che io arrivassi al Minghetti: coloritura voleva dire il (grigio?) curricolo del liceo classico, colorato con una spruzzatina di qualche cosa di nuovo.
Le coloriture sono state avviate nel 2001-2002, poi hanno continuato nell'anno successivo nel 2002-2003 (ero già titolare io ma c’era un preside incaricato), e nel 2003/2004 durante il quale ho cercato di capire, insieme alla scuola, che cosa veramente fossero e, soprattutto, che cosa potessero diventare. Nell'a.s. 2004-2005 ho istituito un gruppo di ricerca sulla flessibilità del curricolo e, in particolare, sulle coloriture perché dovevamo scrivere il dèpliant della scuola per le iscrizioni dell'anno successivo: era necessario capire cosa fossero e come spiegarlo ai genitori. Infatti, nell'"open day" dell'anno precedente, mi ero accorta che i genitori stentavano a comprendere cosa fossero le coloriture, tanto che la scuola stessa orientava alla scelta del liceo classico, sottolineando la forza del curricolo tradizionale. Insomma la scelta delle coloriture veniva messa in secondo ordine dalla scuola stessa.
Però ci dispiaceva farle morire perché noi stavamo riflettendo seriamente sul curricolo del liceo classico, perchè erano gli anni della riforma Moratti. Io avevo realizzato dei collegi informali, accanto ai collegi formali in cui si deliberava, indicevo delle riunioni di libero pensiero, si discuteva a volte sul curricolo, a volte sulla valutazione, a volte sul lavoro di gruppo. Ha avuto molto successo questa collegialità diffusa, tanto che è nata l'idea di strutturare definitivamente le coloriture nelle sezioni del liceo aumentando il numero e la tipologia fino ad estendere le coloriture al triennio liceale. Io ne ho parlato con gli studenti (parlare con gli studenti vuol dire molto nella scuola superiore) perché alcuni di loro, passati al triennio liceale, mi chiedevano perché non si facessero più le coloriture e, dunque, avevo chiesto loro di fare al collegio dei docenti delle proposte più mirate. E così, nel frattempo, abbiamo arricchito le coloriture: alle cinque esistenti se ne sono aggiunte altre cinque perché da cinque sezioni la scuola era passata: si è aggiunta una coloritura di economia, una di comunicazione, un'altra tecnologica, giuridica, di intercultura.
E' proprio in questa fase che la scuola ha capito cosa erano diventate le coloriture: le coloriture sono attività laboratoriali e di ricerca che la scuola realizza utilizzando le discipline curriculari; dunque, non sono altre discipline, altre attività, ma luoghi della conoscenza ai confini ed alle intersezioni delle discipline. Insomma, le coloriture sono quelli che Frabboni chiamerebbe i saperi caldi. Ad esempio, il laboratorio di intercultura veniva realizzato utilizzando i classici, per scoprire come la letteratura greca e latina ci ha tramandato il concetto di straniero che poi si è trasformato in uno stereotipo che ancora sopravvive sia pure con valenze negative.
L'introduzione delle coloriture al liceo è stata davvero un'avventura culturale e professionale che penso ha lasciato tracce significative in chi l'ha vissuto in prima persona. Io mi ricordo ancora il luogo dove facevamo le riunioni e quando qualche professore ha detto ”ma no! Non possiamo fare al liceo la stessa cosa che facciamo al ginnasio; no, al liceo bisogna pensare qualcosa di diverso, perché poi il triennio è orientativo” . Ecco l'orientamento è sta la parola magica che ci ha fatto scoprire le potenzialità formative delle coloriture. Dunque, partendo dalle richieste dei ragazzi che volevano continuare a colorare il loro percorso di studio anche nel triennio, la scuola c ha elaborato un progetto che, in partenza, non aveva mai immaginato, chiusi come siamo dentro le nostre "gabbie cognitive". Mentre che il gruppo di ricerca sulle coloriture procedeva, gli studenti hanno chiesto di fare le coloriture non più per sezione come avveniva nel ginnasio ma, incrociando le sezioni. Così abbiamo mischiato i ragazzi per intersezione, non solo in orizzontale ma anche in verticale; quindi alle coloriture partecipava sia il ragazzino di quindici-sedici anni della prima liceo che quello di diciotto-diciannove anni ormai alle soglie dell'università. Questa modalità di strutturare le sezioni è risultata vincente sia sul piano relazionale che sul piano didattico. Anzi, è proprio quest'ultimo piano che è risultato particolarmente significativo, perché, dopo l'esperienza del primo anno, si è affinato l’approccio laboratoriale, in quanto si è reso necessario sul piano operativo. Ad esempio, se la coloritura storica fosse stata realizzata soltanto con gli studenti dell’ultimo anno soltanto, avrebbe imboccato la strada del programma piuttosto che quello della ricerca. Mi ricordo che gli insegnanti erano un po’ restii a formare intersezioni con diverse fasce d'età ("non siamo all'asilo!", qualcuno ebbe ad affermare; “ma come si fa… se tutti gli studenti non hanno fatto il programma,…” .
Oggi posso affermare che non so a cosa siano servite le coloriture per la formazione e l'orientamento degli studenti; di sicuro sono servite ai docenti perché io ho visto lavorare insieme persone che non avrei mai creduto potessero farlo. Il primo anno è stato davvero un’avventura, nel senso che i professori volevano tutte le informazioni, volevano capire tutto prima; cosa impossibile perché queste sono attività di ricerca e la ricerca la si capisce davvero mentre si fa.
La preoccupazione dei docenti era anche di natura organizzativa ovvero di come predisporre un piano di attuazione a partire dal progetto e la mia, invece, soprattutto di tipo gestiionale. Anzitutto c’era uno sconvolgimento sul piano organizzativo: un professore di matematica e fisica che ha più classi al biennio e al triennio, nella settimana dedicata alle coloriture del liceo, era impegnato e, dunque, doveva essere sostituito nelle classi ginnasiali. E poi era necessario distinguere fra i professori che realizzavano proprio loro il progetto da quelli che lo co-progettavano ma dovevano interagire con l’esperto esterno, come per esempio avveniva con la coloritura di musica. C’erano poi i docenti che semplicemente erano nelle sezioni come vigilanza degli alunni che lavoravano con specialisti esterni, e poi quelli che facevano supplenza ai colleghi del ginnasio impegnati nelle coloriture liceali.
Fin dalla prima volta, e’ andato tutto benissimo anche per merito delle due bidelle della portineria cui è toccato di accogliere ed orientare nei luoghi giusti, studenti, insegnanti ed esterni.
Tutta la sperimentazione è stata complessa fin dalla formazione delle sezioni perché i ragazzi volevano scegliere liberamente le coloriture da frequentare, ma se tutti avessero fatto la stessa scelta (ad esempio la coloritura cinema) poi sarebbero saltate le altre già progettate anche sul piano finanziario. Così è stato necessario prevedere, oltre ad una prima, una seconda ed una terza scelta, scontentando tutti. Per non parlare della strumentazione tecnologica richiesta dai docenti ed incompatibile con la disponibilità della scuola.
All'epoca, io avevo la reggenza del liceo scientifico Righi e in più frequentavo l'istituto professionale Fioravanti perché ero tutor d'aula nella formazione dei nuovi dirigenti scolastici, e allora presi due, tre proiettori di là, due-tre proiettori di qua e riuscimmo ad avere in uso tutto quanto era stato richiesto al direttore amministrativo che faceva fatica a capire perché la scuola si era cacciata in questa faticosa baraonda.
Abbiamo speso venti-trenta mila euro per pagare i professori che facevano delle ore in più, erano quattro-cinque ore al giorno, e poi tutti gli esterni, ma la scuola aveva la disponibilità finanziaria di centomila/centoventimila euro, provenienti dai contributi volontari degli studenti versati annualmente all'atto della iscrizione annuale.
Come previsto dalla normativa sull'autonomia scolastica, avevo predisposto, nel programma annuale che accompagna il POF di anno in anno, una scheda-progetto sull’innovazione "coloriture". Nella prima annualità, moltissimi docenti avevano previsto pensavano che i ragazzi non sarebbero venuti a scuola durante la settimana delle coloriture, anche se avevamo mandato la circolare a casa spiegando alle famiglie l’obbligo di frequenza anche per queste attività. Invece, non c’è stata nessuna defezione degli studenti perché avevano ben compreso - avendo partecipato alla sua messa a punto - che era una settimana di sospensione della normale attività didattica ma non della didattica. E’ stato difficile da gestire, venivano gli esperti, volevano informazioni, magari erano trenta sezioni, perché non si potevano fare gruppi di trenta studenti, le coloriture dovevano avere un numero di partecipanti basso come richiesto dall'approccio laboratoriale. E poi abbiamo distribuito un questionario ai ragazzi e ai professori, abbiamo valutato e capito che cosa andava bene e cosa non e abbiamo preso delle decisioni: ad esempio, chiamare meno esperti esterni, utilizzare le risorse che sono nel territorio, come il Museo del patrimonio industriale, per spendere meno ma anche per valorizzare le risorse già esistenti.
Ci siamo collegati con delle strutture esterne, che addirittura potevano avere interesse a partecipare alle coloriture. Un esempio per tutti: abbiamo realizzato una coloritura - quella economica - al Museo del patrimonio industriale guidato da Giovanni Sedioli che per una settimana ha affiancato i nostri liceali in un percorso affascinante in un bosco a loro sconosciuto come la realtà industriale del territorio bolognese.
Negli anni successivi, la coloritura - sottoposta annualmente a monitoraggi e a valutazione - si è evoluta fino a strutturarla dentro il sistema dei crediti formativi, con un punteggio che poteva oscillare da 0,25 a 0,75.
Quello che ci ha appassionato e rendeva tutto entusiasmante è che ognuno di noi ha utilizzato le proprie amicizie, le proprie passioni: ad esempio, la coloritura giuridica l'ho voluta io e così abbiamo utilizzato un docente di lettere del Minghetti che era anche avvocato (il professor Nanni, oggi dirigente scolastico), l'on Giancarla Codrignani già docente del Minghetti ed esperta di Costituzione, la dott.ssa Anna Armone esperta di Pubblica Amministrazione, che ha realizzato un laboratorio sulla trasparenza.
Una coloritura bellissima fu realizzata dal professor Morroi, docente di matematica e fisica del Minghetti, che ha chiamato un docente universitario di Bari proponendo la risoluzione di un giallo attraverso formule matematiche. Fu girato un film e addirittura, per la soluzione del giallo, abbiamo dovuto fare il richiamo dopo due-tre mesi. La cosa, anno dopo anno, da circoscritta, stava diventando sempre più grande ed avvincente per tutti, anche se faticosa sul piano realizzativo.
Ora non conosco da vicino come sta proseguendo l'attività, ma le coloriture sono entrate nella cultura didattica ed organizzativa della scuola e sono diventate strutture stabili del curricolo liceale anche dopo il riordino del Ministro Gelmini.
Quello che vorrei che si capisse è che l’autonomia della scuola, senza la ricerca, sperimentazione e sviluppo non è autonomia. Forse bisognerebbe costringere le scuole a progettare un pezzo del curricolo ed essere valutate per questo. Insomma, accanto ai curricoli obbligatori ministeriali, dovrebbe esserci un pezzo di curricolo della scuola, ma che non fosse di tipo aggiuntivo e sommatorio, ma focalizzato sulla contaminazione dei saperi caldi con i saperi freddi.
Non possiamo tenere a scuola questi ragazzi con spiegazioni e interrogazioni; serve il lavoro sulle competenze, perché con le competenze si può uscire dal recinto prettamente nozionistico e capire che le conoscenze di greco e di latino sono utili per capire la realtà di oggi. La scuola ha la sua conoscenza da trasmettere che nel liceo classico è fortemente simbolica ed è giusto che sia così, però la scuola deve anche far capire che, se si rompono gli argini formali delle discipline, se si infrangono i confini e li trasformiamo in frontiere, allora il sapere della scuola diventa affascinante.