lunedì 20 dicembre 2010

A proposito della stamperia. Incontro con Angela Neri

Angela Neri ha curato nel 2009, per conto dell’IC 1 di Bologna, una pubblicazione in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale. Centro Sociale Ricreativo Culturale e Orti. Anziani Barca, il Comune di Bologna e il Centro Sociale Ricreativo Santa Viola dal titolo “Una scuola colorata”, quarant’anni della scuola Giovanni XXIII, in occasione del, come scrive la stessa Angela, “compleanno della scuola Giovanni XXIII”, che il 7 giugno 2009 ha compiuto quarant’anni. Nelle note al volume la curatrice ritiene di dare motivazioni e spiegazioni di questa iniziativa. Cito testualmente:
“le risposte ognuno se le darà secondo i propri ricordi, le emozioni vissute, le esperienze fatte…
Qualcuna voglio darla anch’io, che per quarant’anni ho lavorato come maestra al Barca. Già, il Barca, questo nome che rievoca, fin dal tempo degli Etruschi, il bisogno di collegare due lembi di terra divisi dal fiume Reno, ma questa è una delle tante storie del Barca, una di quelle che Jacque Le Goff ama tanto e che i maestri cercano di tramandare perché chiunque risieda qui la possa condividere con chi questa terra l’ha conosciuta prima di lui.
E il Barca, di storie trapiantate (passatemi questo termine legato alle mie radici contadine), ne ha viste tante, fin dalla sua nascita politica e architettonica, sapientemente descritta da Milena Benassi: quella degli anni Cinquanta-Sessanta dal Comprensorio, verso la città; quella, subito successiva, tra gli anni Sessanta-Settanta del periodo dell’immigrazione dal sud d’Italia verso una Bologna industrializzata, miraggio di lavoro; quella degli anni Ottanta dei Nomadi accampati spesso lungo il fiume Reno e l’ultima, quella degli stranieri: Marocchini, Tunisini, Bangladesi, qualche Cinese, qualche Centro-Africano, gli Europei provenienti dai paesi dell’Est, qualcuno proveniente dall’ex Jugoslavia, di etnia Rom, diventato stanziale…Provenienze, etnie, lingue, dialetti, usanze, costumi, religioni diverse…hanno forse costituito momenti di attrito, di difficoltà di convivenza, ma attraverso il tempo stanno fondendosi in un popolo nuovo…La conoscenza avviene se le distanze si accorciano e negli anni Ottanta e Novanta è la solidarietà dei quartieri Barca-Santa Viola nei confronti delle “famiglie del fiume”: la condivisione del cibo e delle parole porta anche all’agire istituzionale e all’accoglienza nelle scuole. Accoglienza che prima era stata praticata per chi proveniva dal Sud del nostro paese e che ora si rivolge agli stranieri…Ogni stagione si sussegue con colori e connotazioni diverse, legate dalla passione per quel Lavoro Quotidiano che ci ha regalato quarant’anni di storia scolastica “al di sopra delle righe”, al Barca”.

Incontro Angela al Centro Sociale Ricreativo Santa Viola dove lei svolge volontariato:
- Ho incominciato a insegnare al Quartiere Barca quando Giovenale era appena uscito dall’esperienza di San Sisto e aveva avuto come maestro diretto Bruno Ciari. Io conservo ancora adesso in casa alcuni libri di scienze di Ciari, perché l’insegnamento delle scienze, per Ciari, andava fatto in un certo modo, con ipotesi, tesi e verifica e, siccome Giovenale aveva timore di sbagliare, Ciari andava nella sua classe, perché erano davvero amici e insieme facevano esperimenti. Successivamente Giovenale ha continuato sulla strada del lavoro scientifico anche alla Dozza, al carcere. Questa era una strada e l’altra era quella delle attività manuali, per la scuola che pensavamo noi, intendo. Quando ho incontrato Giovenale Ratini io avevo un’esperienza di due anni di tempo pieno alla scuola elementare Dall’Olio, erano appena entrati in vigore i Decreti Delegati, il gruppo delle famiglie che seguiva il mio tempo pieno era fantastico e con la loro collaborazione avevo potuto chiudere la scuola il sabato, programmare con la mia collega, fare l’adozione alternativa dei libri di testo, tutto quanto si poteva in previsione della scuola a tempo pieno. Arrivata alla scuola De Pisis (scuola elementare del quartiere, oltre a Morandi, Cesana, Giovanni XXIII e Villa Serena) mi sono trovata nelle stesse condizioni, nel senso che avevo come partner un collega che proveniva dal doposcuola, era quindi un insegnante comunale come la mia collega precedente.Mettersi insieme e lavorare sulle nostre reciproche diversità ha costituito davvero un valore: lui insegnava a me le tecniche, che conosceva bene perché era già istruttore internazionale del CEMEA, aveva lavorato moltissimo in Francia ed quindi portato in Italia le tecniche CEMEA francesi, e anche quelle di Cooperazione Educativa, perché allora i due movimenti erano strettamente legati. Io portavo la teoria, quindi, con lo scontro-incontro, trovammo un bel modo di costruire. Lavoravamo in una affittanza e considero anche questo un valore aggiunto. Non era solo un condominio, ma quelli erano addirittura i negozi, eravamo adiacenti al marciapiede e ci separavano dall’esterno due pareti di vetro che era stato plastificato con dell’isolante. Noi avevamo diviso lo spazio a seconda dell’uso e consideravamo come spazi la parete, il soffitto e tutto poteva avere una propria funzione. Lo spazio porta, ad esempio, era quello in cui noi mettevamo il cartellone delle attività e della suddivisione delle attività della classe. C’era lo spazio colonna, al quale attaccavamo le sagome, e poi c’era l’angolo morbido con scaffalature per i libri prese nei magazzini comunali, sul quale i bambini potevano buttarsi, togliersi le scarpe, e nel quale potevano leggere, perché Giovenale aveva portato tutta la biblioteca di Mario Lodi, l’aveva trovata nei magazzini comunali, una bibliotechina che ora sarà al macero, ed era una cosa fantastica. Io ho conosciuto Mario Lodi e l’ho incontrato in varie occasioni. Non a caso a Mario Lodi è stata conferita la laurea Honoris Causa in occasione delle celebrazioni per il Centenario dell’Univers di Bologna. Ce n’erano tanti di angoli importanti nella mia scuola. C’era, ad esempio, l’angolo della tana, dove i bimbi andavano quando non erano di buon umore e proprio lì avevano un diario, un quaderno dove potevano scrivere tutto quello che volevano, e l’avevamo anche noi. Di fronte all’angolo morbido c’era la stamperia scolastica. La stamperia non aveva il compito di avviare alla lettura, come io, da globalista, in quel momento, avrei voluto, ma aveva lo scopo di diffondere i testi dei ragazzi, quello che dicevano, perché era importante quello che dicevano. Diffonderlo soprattutto fra i genitori e le altre classi, era la nostra corrispondenza scolastica. Il nostro primo giornalino si intitolò “Il simpatico”, i bambini vollero chiamarlo così, e c’erano i testi dei bambini. La stamperia era fondamentale perché portava a riprodurre, attraverso quei caratteri mobili, i testi dei ragazzi. Poterli riprodurre significava consegnare agli altri il proprio pensiero, oppure era un modo per correggerli e valorizzarli. Noi usavamo anche le matrici e il ciclostile, abbinavamo le due cose, come la matrice del disegno, in questo modo si riportavano anche i disegni. Con la stamperia i testi venivano corretti e valorizzati. Non ho conservato il materiale perché non davamo importanza alle conquiste che avevamo ottenuto, ma a quelle che dovevano venire, non si lavorava sulla memoria, si lavorava sull’innovazione, e si buttava via tutto. Si guardava solo avanti. Abbiamo continuato a fare così per almeno dieci anni. Non davamo importanza a quello che era successo, perciò non ho nulla di questo materiale. Io sono rimasta nella scuola e ho continuato a fare ricerca nella scuola, guardando sempre avanti.
Tu e Giovenale avete scritto “I corpi si danno del tu”, con l’introduzione di Andrea Canevaro, io ricordo una vostra presentazione del volume e una dimostrazione del metodo da voi descritto per l’apprendimento della lettura e della scrittura, durante un incontro alla scuola elementare De Pisis.
- Credo ci sia stata una sterzata per quel che riguarda l’imparare a leggere e a scrivere: siamo negli anni Settanta, rinnovamento significava metodo globale, il metodo sillabico era privo di motivazione, invece il metodo globale per l’apprendimento della lettura e della scrittura significava il “perché scrivo” da parte del bambino: “non posso scrivere soltanto per la maestra che mi dà bravo sul quaderno, ma io devo scrivere perché ho delle cose importanti da dire” e allora si spiega un testo anche molto breve come “siamo a scuola e stiamo bene”, il nostro primo testo. Il fatto è che contemporaneamente al tempo pieno nasce a Bologna il problema dell’integrazione dei bambini disabili e dovevamo cercare strumentazioni più adeguate per consentire loro, che non erano in grado di imparare col metodo né fonologico nè sillabico, nemmeno col globale perchè era troppo una stringa di parole, una frase, su cui dovevano poi ritornare più volte attraverso un’analisi e una ricomposizione, di imparare a leggere. C’era bisogno del metodo fonico.
Parlami ancora della vostra scuola.
- Noi aprimmo Villa Guastavillani. Avevamo fatto uno scambio con Firenze, poi ci mettemmo in testa che sarebbe stato interessante poter fare, con dei bambini deprivati di tutto come potevano essere quelli, un soggiorno dove essi potessero autogestirsi, e intendavamo con ciò farsi da mangiare, fare le pulizie e una serie di attività intensive che andavano dalla danza, al cinema, alla pittura, in più c’erano le attività CEMEA come il cartonnage e le varie teniche di pittura. Sono le tecniche indicate dal CEMEA, assolutamente curate, compresa l’attività musicale. Il CEMEA bolognese ha praticamente abortito quando Giovenale se ne è andato perchè non ne condivideva più il progetto: avevano paura di muoversi e di contaminarsi con altre esperienze. C’è ancora una sezione del CEMEA fiorentino, io penso ai suoi grandi nomi, alle tante persone che ho conosciuto e che erano veramente grandi, ma non fanno più stage e nemmeno formazione. Ricordo con piacere l’esperienza della vendemmia in una cooperativa, con la possibilità di raccogliere le mele e le pere e di fare la marmellata. Il termine esperienza dice tutto perché è un coinvolgimento totale del corpo e della mente, e quindi nell’esperienza, ci sta dentro tutto, mentre ora questo tutto torna a separarsi e stiamo per lasciare nuovamente il corpo dei bambini fuori dalla scuola.
Cosa pensi della scuola di oggi?
- C’è una specie di muro di gomma che ci separa dai nostri ragazzi futuri insegnanti, è come se fossero senza speranza e quindi con pochissima voglia di mettersi in gioco, perché se non ti metti in gioco tutto ti scivola addosso e allora nulla attecchisce da qualche parte. Io ho buttato tutto il materiale e ho imparato da Giovenale: ho sempre buttato gli sfondi narrativi che erano anche sfondi integratori, perché mi rifiutavo di insegnare a un nuovo ciclo con le cose vecchie già usate. Secondo me si doveva cambiare per trattare ciascuno nella sua specificità. Fai finta che quando parlo usi il plurale perché erano sentimenti estremamente condivisi. Nel decennio che ho lavorato con Giovenale c’è stato questo continuo inventare delle strade: il bisogno di rinnovare, di cambiare, di far entrare le famiglie. Allora il coinvolgimento delle famiglie era davvero difficile, ma quando le sentivi coinvolte erano una potenza incredibile. Bisognava conquistare la loro fiducia, la famiglia di allora ti riconosceva un ruolo e se ti dimostravi generoso si fidava di te, era una diffidenza “di classe”, come si diceva, che si è andata attenuando nel tempo. Avevamo a disposizione delle opportunità incredibili, facevano per noi molti lavori mauali, ogni anno partecipavano a uno o due soggiorni, oltre alle gite scolastiche pianificate. I genitori erano l’altro asse portante, si era continuamente affiancati, una volta che avevano capito come lavoravi e avevamo mangiato insieme. Io ho avuto la fortuna che in questi anni i miei amici più importanti siano rimasti i genitori e gli alunni. E poi c’è stato l’affiancamento dell’Università, oltre a quello del CEMEA, il comune per me era Giovenale. Il Comune di Bologna organizzava allora il Febbraio pedagogico, che da tempo non fa più, ed era quello un momento di incontro fondamentale. C’erano questi assi, era come se tutti le componenti educative della città ci affiancassero, ad esempio l’IRPA, mi ricordo l’avanti-indietro, noi da loro, ma anche loro da noi. Quando si cominciò davvero l’integrazione dei bambini disabili nelle scuole, ricordo l’avanti indietri di Andrea Canevaro. E questo affincamento ci ha fatto crescere.
Noi facemmo dieci anni praticamente senza il dirigente scolastico, c’era una reggente che si vedeva di rado.
- Io di quegli anni ricordo una continua programmazione, il continuo preparare l’ambiente, preparare la settimana, il contesto, i materiali. La stamperia ci ha seguito nel piano superiore della scuola De Pisis quando hanno ristrutturato, finchè non l’abbiamo sostituita col ciclostile e poi col computer, che non va demonizzato ma usato nella maniera corretta, ci sono maniere assolutamente creative di comunicazione. Noi abbiamo cominciato ad usare il computer nella nostra classe perché ci ha aiutato un papà: come ho già detto ogni genitore era maestro di qualche cosa, le porte della classe erano aperte perché ciascuno potesse portare la sua esperienza, diventava sia maestro di qualche cosa sia faceva qualche cosa, tutti avevano bisogno di portare il loro contributo, era il modo per far crollare le pareti e fare una scuola aperta, era una scuola che si apriva al territorio, e questo era il territorio giusto. Si è mantenuto tale, in questo quartiere c’è una tradizione di fiducia nei confronti della scuola, di fiducia e di bisogno. La scuola era ed è un luogo di aggegazione, lo abbiamo visto anche lo scorso anno nell’iniziativa con la scuola media Dozza e degli istituti del circolo.

La stamperia, il sussidio didattico più noto di Celestine Freinet, faceva parte della Mostra durante la settimana dal 11-16 maggio 2009, in occasione dei festeggiamenti del Quarantennale. La scuola, aperta nel pomeriggio e di sera per consentire a tutti i genitori di essere presenti, aveva allestito, con la partecipazione degli insegnanti e del personale ausiliario, sotto la cura del maestro Giuliano Vaccari, uno spazio-mostra permanente di materiali e sussidi didattici, accompagnata da una serie di attività diverse di giorno in giorno. Recita la locandina: Progetto “Per un’educazione attiva” – Istituto Comprensivo 1 Bologna - Anno scolastico 2009-2010. Il progetto nasce nell’anno scolastico 2008-09, durante il quale la scuola primaria Giovanni XXIII dell’I.C.1 di Bologna ha festeggiato il Quarantennale della sua esperienza di scuola.
Le iniziative vengono riassunte nel manifesto dell’esperienza ( laboratori di teatro, di tcniche di pittura, riciclaggio creativo, decoupage, danze, musiche, seminari a tema).
… “Una macchina del tempo...che ci porta a viaggiare nel mondo della scuola a partire dagli anni '70 fino ad oggi. Nella mostra sono raccolti tantissimi materiali, molti erano conservati a scuola, molte cose invece sono state portate da ex maestre che avevano conservato il risultato di anni di lavoro…È forte l'accento posto sul fare da soli, in classe. Fare e toccare. Imparare attraverso l'esperienza diretta. Per questo era molto interessante l'armadio Vallardi, predisposto con tutto quello che occorre per fare scienze. Microscopi, vetrini, e le meravigliose valigette a tema che contengono esempi visibili e tattili dell'argomento trattato. Giuliano si divertiva a fare vedere alle scolaresche la valigetta con tutte le sementi, quella della canapa, quella del vetro e della ceramica. Le scolaresche erano affascinate al vedere tante cose inusuali come il proiettore, il complessino Freinet per la stampa, o i telai”…scrive la studentessa del 3° anno di Scienze della Formazione Primaria che svolge il tirocinio proprio in quel periodo nella scuola, Maria Castegnaro.
Probabilmente a Bologna non esiste un’altra stamperia, dice Angela Neri che ce n’erano due e una è stata donata all’Ausilioteca molti anni fa e non se ne hanno più notizie.
Una scatola di legno di medie dimensioni, con caratteri di stampa, che ho visto in uso una volta soltanto, proprio da Giovenale Ratini. Mi sembrava di difficile uso ma di grande potenza, perché dava la parola ai bambini, che fino ad allora dovevano stare zitti una volta a scuola. Resta comunque ben custodita a rammentare il valore di una pedagogia della cooperazione nella prospettiva dell’Educazione Attiva sempre attuale.

Giuliana Santarelli