venerdì 30 settembre 2011

Alcune riflessioni sulla “contro-riforma” della scuola.

Ira Vannini

Il 18 dicembre 2006 viene emanata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio la Raccomandazione relativa a competenze chiave e apprendimento permanente.
Si tratta di un orientamento di estrema rilevanza per tutti gli stati dell’Unione che hanno a cuore la qualità dell’intero sistema di istruzione. Ponendosi nella prospettiva aperta dal Consiglio di Lisbona del 2000, che individuava le competenze di base per l’apprendimento permanente e le strategie per il loro raggiungimento entro il 2010 – la Raccomandazione del 2006 sottolinea l’urgenza di una principale finalità dei sistemi di istruzione: quella di dotare tutti i giovani di competenze fondamentali al fine di garantire loro un autentico diritto alla cittadinanza attiva.
Le competenze chiave che vengono definite all’interno del documento europeo – quali la capacità di comunicare nella lingua madre e nelle lingue straniere, le abilità matematiche e scientifico-tecnologiche, le metacompetenze connesse alle strategie di apprendimento e le abilità in ambito sociale e civile – si pongono come richieste fondamentali anche per il nostro sistema scolastico italiano il quale si trova di fronte a quella che l’OCSE individua come la “sfida dell’equità”. Equità intesa come qualità intrinseca di un sistema di istruzione democratico, capace di garantire a tutti, non solo l’accesso alla scuola e il prolungamento del percorso formativo di base, ma anche e soprattutto elevate competenze, grazie a una scuola e a una didattica che siano insieme “più unitarie e più flessibilmente differenziate”. L’unitarietà del sistema e degli obiettivi da raggiungere costituiscono infatti aspetti imprescindibili di una scuola equa, che sa assumersi la responsabilità – attraverso la realizzazione effettiva di una didattica flessibile – di portare tutti i giovani al raggiungimento di quelle competenze che a livello mondiale sono ormai considerate sostanziali per donne e uomini che vogliano costruire una società più democratica, capace di pensiero critico e di porre un freno a tendenze massificanti e di povertà culturale.
A fronte di ciò, i dati recenti dell’OCSE, in particolare quelli derivanti dalle indagini OCSE/Pisa sulle competenze dei quindicenni, hanno evidenziato che, soprattutto in paesi come l’Italia, i risultati scolastici degli studenti tendono a riproporre, rafforzandole, le disuguaglianze socio-economiche esistenti nella società. I risultati, poi, nell’ambito di competenze di base come la comprensione della lettura o le abilità matematiche, sono fortemente preoccupanti e descrivono ampie differenziazioni interne al sistema scolastico nazionale: non solo tra nord e sud del paese, ma anche tra scuole di “serie A” e scuole di “serie C” all’interno delle singole regioni, e fortemente anche nella nostra Emilia Romagna!
Dinanzi a tali questioni, le scelte della politica scolastica italiana degli ultimi cinque anni si sono poste con un atteggiamento non sempre coerente; più spesso ci sono state disposizioni ambigue di fronte alle sempre più pressanti richieste comunitarie di garantire la qualità e al contempo l’equità del nostro sistema di istruzione. La cosiddetta Riforma Moratti (Legge 53/2003) ha introdotto in modo unilaterale nei curricoli scolastici un’idea forte di personalizzazione, che valorizza e dà enfasi a un diritto alla diversità che, pur fondamentale nella scuola, non può non essere bilanciato da ideali e finalità altrettanto forti connesse al diritto all’uguaglianza.
Il diritto alla diversità, infatti, se da un lato evidenzia la necessità fondamentale di garantire a ciascun bambino la valorizzazione delle sue attitudini personali e lo sviluppo di quelle abilità in cui dimostra di poter eccellere, dall’altro lato porta con sé il pericolo di una completa deresponsabilizzazione della scuola nei confronti dell’impegno nella didattica. Una didattica cioè che dovrebbe sapersi sintonizzare con le diverse esigenze formative e i diversi stili di apprendimento di ciascun alunno, in modo da portare tutti a raggiungere quelle competenze che sono basilari per agire da cittadini nella società e per le quali non esiste alcuna base scientifica che porti a teorizzare la necessità di una predisposizione naturale.
Nel 2007, le indicazioni della Riforma Moratti sono state poste tra parentesi e sostituite da un provvedimento normativo del Ministro Fioroni che ha avuto lo scopo di fornire indicazioni nazionali (Nuove Indicazioni per il curricolo del 31 luglio 2007) per i curricoli della scuola di base in termini soprattutto di traguardi formativi da raggiungere. Insieme ad esse, è stato raggiunto un risultato di portata storica: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione ai 16 anni di età, formalizzato dopo lunghi decenni di dibattiti con il decreto ministeriale n. 139 del 22 agosto 2007.
Il merito principale che hanno avuto i provvedimenti del 2007 - nonostante i responsabili del mondo politico e del dibattito pedagogico-scientifico non siano riusciti a comunicarlo adeguatamente e a farne comprendere la vera portata all’interno del mondo della scuola – è stato quello di delineare l’orizzonte necessario di una scuola rinnovata e a dimensione europea, coerente cioè con lo scenario di una scuola equa e di qualità che l’Europa e l’OCSE vanno auspicando sempre più negli ultimi dieci anni. Tali provvedimenti non rappresentano forse un passo risolutivo verso una completa riforma della scuola, tuttavia essi costituiscono una condizione imprescindibile affinché la scuola e coloro che hanno responsabilità politiche e scientifiche nell’ambito dell’educazione possano finalizzare il loro impegno verso una direzione comune, verso una più definita e condivisa “idea” di scuola.
Nel settembre 2008, il quadro descritto è stato purtroppo profondamente scosso dall’emanazione di un decreto legge (il n. 137 del 1 settembre 2008) relativo a “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”. Tale decreto, convertito nella legge 169 del 30 ottobre 2008, non sembra a prima vista delineare un coerente disegno innovativo all’interno del quadro precedentemente descritto in quanto non evidenzia una strutturata e organica proposta di riforma della scuola di base; solo introduce una serie di provvedimenti di “restaurazione” che riprendono una serie di modalità del “fare scuola” antecedenti alle normative degli anni ‘70: la valutazione in decimi del comportamento degli studenti della scuola secondaria di I e II grado, la valutazione in decimi nella scuola primaria e secondaria di I grado, la riduzione del tempo scuola, l’insegnante unico nelle classi di scuola primaria.
Tuttavia, ad una lettura più attenta, che tenga in considerazione soprattutto gli immani tagli “economici” previsti per i prossimi anni, emerge più chiaramente il disegno di “riforma” celato dietro questi provvedimenti: un attacco durissimo alla scuola pubblica e alle sue possibilità di realizzare effettivamente la promozione delle competenze degli allievi in un’ottica democratica.
Sancito attraverso l’iter legislativo del decreto-legge, provvedimento governativo utilizzabile in casi straordinari di necessità e urgenza, il decreto 137 viene emanato, non solo senza una previa discussione parlamentare, ma anche senza la possibilità di un ampio dibattito istituzionale all’interno del mondo della scuola e della ricerca pedagogica. L’urgenza, ovviamente, è motivata da scelte di tipo finanziario.
Approvato, con pochi ritocchi, come Legge 169, oggi tale riferimento legislativo è entrato prepotentemente in un quadro normativo costruito con fatica, impegno e competenza negli ultimi 40 anni, a partire dalle innovative (oggi quasi “rivoluzionarie”) normative degli anni ‘70. Esso prospetta una scuola dalle caratteristiche tradizionali, ben lontana dalle innovazioni che le ricerche empiriche nazionali e internazionali sulla qualità dell’istruzione richiederebbero.
Le questioni che tale legge solleva sono molteplici e vengono a deteriorare l’impianto pedagogico di una scuola democraticamente orientata e di una professionalità docente centrata specificamente sui caratteri dell’intenzionalità progettuale. In particolare, la re-introduzione del “maestro unico” nella scuola primaria rappresenta un aspetto paradigmatico di un disegno di autentica “controriforma” di tutta la scuola dai 3 ai 16 anni che, unitamente alle 24 ore di impegno dell’insegnante solamente sulla classe e all’abolizione delle compresenze (anche laddove si prospetta la soluzione del maestro prevalente), disconferma in modo evidente l’idea di una professionalità docente che si qualifica sostanzialmente nella progettazione intenzionale dell’attività educativa e didattica; nel confronto e nella discussione collegiale; nella capacità di riflessione, valutazione e autovalutazione al fine di governare con competenza il curricolo. Negando tutto ciò, l’insegnante “unico” (o prevalente che sia) viene ad essere considerato come un mero esecutore della didattica in classe, non importa se progettata e consapevole oppure casuale, ciò che sembra importare è che non abbia un’idea delle finalità democratiche dell’insegnamento e, anche se l’avesse, non abbia tempi, spazi e condizioni istituzionali per perseguirle e realizzarle.
I rischi dunque che la Legge Gelmini pone all’interno della scuola primaria, e le ripercussioni che essi hanno su tutti i livelli scolastici, sono notevoli. L’avvento dell’insegnante unico, la diminuzione drastica del tempo-scuola, l’impossibilità di proseguire la modalità didattica delle compresenze – unitamente anche alla reintroduzione dei voti in decimi non supportata da alcuna indicazione per la realizzazione di serie prassi valutative di tipo formativo e sommativo – costituiscono un insieme di aspetti che minano alla base le reali possibilità della scuola di operare in una prospettiva di individualizzazione e di promozione democratica di buone competenze per tutti gli alunni. Se si unisce a tutto questo il forte disinvestimento economico ed istituzionale sulla scuola, sulla figura professionale dell’insegnante e sulla sua formazione, ne emerge un quadro di forte preoccupazione.
In risposta a tutto questo, si evidenzia l’urgenza, a livello di società civile, di prendere consapevolezza di come la complessa problematica dell’istruzione ci coinvolga tutti e ci richieda – in questo difficilissimo momento storico, politico e culturale – un deciso impegno al fine di immaginare e realizzare azioni di autentico sostegno alla scuola pubblica. La possibilità di discutere in varie sedi dei problemi della scuola – evitando di sottostare solo alla logica del senso comune o del semplice riferimento alla propria esperienza di scolari, ma promuovendo invece la logica del confronto, della competenza, del rigore metodologico e delle decisioni fondate su dati empirici, del desiderio di approfondire le questioni con senso critico – costituisce oggi una preziosa opportunità e insieme una grande responsabilità per ciascun cittadino.
La progressiva costruzione di una coscienza civile sul concetto di qualità della scuola e sulle finalità costituzionali della scuola pubblica rappresenta oggi un’urgenza fondamentale per la nostra società democratica e, in questo senso, le donne e gli uomini che credono nei valori della democrazia non possono che continuare a svolgere l’importante ruolo di stimolo, di promozione e sostegno di tale dibattito al fine di giungere a prospettare una concreta proposta di rinnovamento del nostro sistema di istruzione e formazione.